Riceviamo e pubblichiamo una riflessione di Carlo Scognamiglio, relativa alla pedagogia e al rapporto tra docente e alunno:
Il pedagogista Philippe Meirieu ha senz’altro ragione nel fare appello alla necessità di superare molte sterili polarizzazioni, tipiche del dibattito pubblico sull’educazione. Si dimostra un eccesso di faciloneria quando si schiacciano le proprie prospettive pedagogiche sul piano nostalgico della rappresentazione di una tradizione – forse mai realmente esistita – relativa alla trasmissione dei saperi; così come simmetricamente bolso risulta un certo revival banalizzato dell’attivismo pedagogico. Lo spiega bene, dunque Meirieu, nel suo volume Una scuola per l’emancipazione, pubblicato in Italia dall’editore Armando nel 2019, anche se non particolarmente illuminanti risultano certi toni da intellettuale underdog (ricorrenti in modo particolare nell’introduzione firmata insieme ad Enrico Bottero), che lo inducono a reiterare in modo forse eccessivo espressioni come, “in Italia la pedagogia è stata messa spesso sul banco degli accusati” (p. 18), “lo sdegno dell’educatore è probabilmente vano” (p. 25), “di fronte all’ignoranza, alla malafede e alla calunnia pesa la stanchezza” (p. 26), “ho dedicato molto tempo ed energia a difendermi dagli attacchi” (p. 43).
Tuttavia, occorre riconoscere a Meirieu numerosi meriti, tra cui l’aver fatto luce su almeno un paio di elementi critici senz’altro attuali:
1) Una pessima abitudine, nella relazione educativa, deriva dalla trasformazione degli obiettivi in prerequisiti, “un argomento inconfessabile ma onnipresente in ogni istituzione scolastica”. L’attenzione e la motivazione allo studio, che secondo diversi opinionisti sono pesantemente messi in crisi dalla società iper-connessa, sono in realtà gli obiettivi originari dell’educazione. Sono il vero traguardo. Ma poiché sono difficili, sempre più difficili, da sollecitare, si trova nell’inversione logica un rifugio comodo e di facile approdo. Per cui insegnare appare impossibile in assenza dei “prerequisiti”: se il ragazzo non presta attenzione, non è in condizione di apprendere; se il ragazzo non è motivato, nulla gli si potrà insegnare. Tuttavia, da un punto di vista pedagogico, occorrerebbe rimettere le persone sui piedi, senza pretendere che camminino sulla testa. È compito del docente, sempre e comunque, trovare le giuste strategie per attivare nello studente un percorso di rafforzamento delle capacità di attenzione e la giusta motivazione all’apprendimento. Rovesciare il rapporto è solo un trucco autoassolutorio.
2) In seconda battuta, pare utile segnalare la valorizzazione di alcuni aspetti metodologici riconducibili al modello pedagogico di Célestin Freinet: secondo Meirieu, è ora che la differenziazione pedagogica (ad esempio quella teorizzata nell’ambito dell’Universal Design for Learning) venga liberata dall’accusa di essere asservita alla ragione strumentale, e sia valorizzata nella sua capacità di generare un buon equilibrio tra tradizione e innovazione, con poche ma semplici pratiche: “affermare obiettivi comuni e moltiplicare le possibilità per acquisirli, sia diversificando i metodi che utilizzando le interazioni tra gli allievi: alternando lezioni dell’insegnante, lavoro individuale e di gruppo, letture silenziose, esercizi e sperimentazioni, approccio attraverso esempi concreti, lavoro di documentazione e costruzione di modelli” (p. 51). Lo stesso concetto di “capolavoro”, che dal prossimo anno ritroveremo al centro dell’introduzione dell’e-portfolio, per il quale la nuova figura del docente-tutor dovrà ricoprire la funzione di guida educativa, non andrebbe interpretato in modo produttivistico, ma riconnesso all’indubbia valenza formativa per i giovani nel cimentarsi in un compito altamente complesso e significativo, anche da sviluppare in cooperazione con altri, per vederlo infine realizzato, spingendo la realizzazione del proprio lavoro in profondità, fino alla fine. Quando si evoca il concetto di “capolavoro”, non si parla affatto di produzione standardizzata: “L’opera – afferma Meirieu – porta con sé l’impronta di un essere umano e va oltre la produzione necessaria alla sopravvivenza; non è destinata al consumo immediato. Non è il prodotto di un individuo anonimo ma un oggetto offerto agli altri da parte di un soggetto con nome e cognome” (p. 228). Con la giusta attenzione ai rischi individualistici e narcisistici di una proposta didattica che va integrata e mai assolutizzata, non si possono non riconoscere elementi di interesse culturale e filosofico in un simile impianto concettuale.