Dopo un anno di pandemia, credo che l’accusa mediatica rivolta al decisore politico di non aver saputo fronteggiare l’emergenza nelle scuole con efficacia e tempestività debba essere piuttosto indirizzata ai singoli dirigenti scolastici, ai quali il decreto n. 165/2001 sul pubblico impiego conferisce la “qualifica dirigenziale” e la piena responsabilità amministrativa e organizzativa, tanto da specificare che essi “rispondono […] in ordine ai risultati”.
Fin dal cosiddetto decreto “Cura Italia” (17 marzo 2020) venivano infatti destinati 85 milioni di euro di risorse aggiuntive alle scuole perché provvedessero “immediatamente” a potenziare le loro infrastrutture tecnologiche così da garantire il diritto allo studio anche a distanza: la somma più consistente (70 milioni) doveva venire incontro alle esigenze degli “studenti meno abbienti” con la fornitura di “dispositivi digitali individuali” in comodato d’uso gratuito.
Circa dieci giorni dopo (28 marzo) una nota ministeriale si preoccupava di fornire suggerimenti concretamente operativi alle istituzioni scolastiche che, nella loro autonomia e ciascuna secondo le proprie esigenze, erano chiamate a spendere quelle risorse per rendere possibile una didattica di emergenza online; data l’urgenza, si ricordava inoltre che gli acquisti erano ammessi anche “in deroga” al codice degli appalti.
Affidata dunque questa prima tranche di risorse nelle mani dei dirigenti scolastici, un secondo più corposo stanziamento aggiuntivo (331 milioni di euro) veniva disposto il 19 maggio (DL 34) per consentire a ciascuna scuola di organizzare l’avvio del nuovo anno scolastico “in condizioni di sicurezza” e “in modo adeguato alla situazione epidemiologica”.
Forti dell’esperienza e dotate di tempi più distesi, le amministrazioni scolastiche autonome e i loro dirigenti avrebbero dovuto impegnare quelle somme in funzione di un duplice scenario: quello della didattica in presenza (dispositivi di protezione, adattamento degli spazi), e quello della didattica digitale (“adeguamento della infrastruttura informatica”), previa naturalmente la predisposizione di un piano e la valutazione delle specifiche necessità.
Significativamente però il legislatore fissava questa volta il termine del 30 settembre per la “realizzazione” o per l’“affidamento degli interventi”, allo scadere del quale le somme non impegnate sarebbero state redistribuite alle istituzioni scolastiche che avessero speso la loro quota e fatto richiesta di “ulteriori risorse per le medesime finalità previste”.
Al di là dell’evidente intenzione di corrispondere ad ogni scuola in ragione del suo effettivo bisogno, limitando così al massimo gli sprechi, sembra di cogliere in questa disposizione quella sollecitazione all’efficienza e alla responsabilità che diventerà poi esplicita nel successivo “Piano scuola” del 26 giugno.
Più volte viene infatti ribadita in quest’ultimo la centralità del “ruolo delle singole scuole”, dotate di autonomia didattica e organizzativa secondo il consolidato Regolamento del 1999 (DPR 275), nell’intraprendere azioni di contrasto mirate contro la pandemia sulla base delle specifiche variabili di contesto: curva dei contagi, spazi e dotazioni della scuola etc.
Se lo Stato ha dunque erogato tempestivamente le risorse, fornito le linee guida, attivato sinergie, non è forse ragionevole – oltre che fondato giuridicamente – che i dirigenti a cui esso ha affidato la responsabilità di ciascuna scuola rispondano dei provvedimenti con cui avrebbero dovuto garantire allo stesso tempo il diritto ad apprendere dei loro studenti e quello collettivo alla salute?
Se poi molti dovessero risultare i dirigenti inadempienti, suggerirei di ripensare le modalità del loro reclutamento e, soprattutto, lo stesso assetto verticistico e aziendale introdotto nella scuola dal quel Decreto sul pubblico impiego.
Davide Gatto