Il sacro, diceva Goethe, è ciò che tiene unite tante anime, come al tempo prima di Babele quando una unica lingua teneva uniti tutti gli uomini.
Il mito biblico spiega la diaspora umana con la confusione dei linguaggi voluta da Dio per punire l’arroganza dei costruttori della torre.
E per spiegare pure le differenze che percorrono ciascun popolo in termini di costumi, cultura, visione del mondo; differenze che orgogliosamente il popolo ebraico riscatta, dichiarandosi e ritenendosi la nazione prescelta da quello stesso Dio della confusione dei linguaggi che però solo loro riconoscono e adorano perché appunto popolo eletto.
Ma anche l’età dell’oro del mito greco era rappresentata dallo stesso concetto di una lingua comune, sui canoni della quale ognuno intendeva e riconosceva, mentre gli apostoli, affinché potessero diffondere il vangelo, furono investiti da lingue di fuoco che consentirono loro di esprimersi e predicare in tutte le lingue del mondo.
E non a caso, negli Atti degli apostoli, le lingue di fuoco della Pentecoste hanno lo stesso nome delle lingue parlate dagli uomini, come metafora della capacità che esse hanno di riscaldare e bruciare l’animo dell’uomo, inducendolo perfino al martirio o al massacro, ma anche a egregie cose.
Tant’è che una delle più grandi intuizioni dei regimi totalitari del novecento fu proprio l’uso di un nuovo linguaggio, altisonante e retorico, insieme all’accaparramento dei mezzi di informazione, comprese le architetture e le arti visive, che ne potessero amplificare le idee, coprendo così i baratri che venivano invece costruiti.
E se all’inizio del mondo fu la parola e lo stesso Dio la adoperò per chiamare le cose, ogni cosa, compreso l’albero e il serpente, diradando così il caos, nel mattino di questo nuovo millennio, segnato da terrorismo e da guerre, nonché dallo spostamento per il mondo di milioni di individui, dovrà necessariamente l’uomo ritrovare una nuova Pentecoste, che è la capacità di capire e parlare le lingue del mondo, di tutto il mondo compreso quello del terrore e dell’emigrazione e prima ancora che si verifichi un nuovo olocausto.
Perché, visitando il lager nazista di Buchenwald, a pochi chilometri da Weimar, il luogo della parola dell’arte di Goethe e di Beethoven, di Schiller e di Herder, ci pare impossibile che dentro a quei boschi secolari e mentre Parsifal indugiava a raccogliere il Graal, si potessero scannare e bruciare migliaia e migliaia di uomini. E cosa aveva consentito tanto orrore se non l’uso infame della parola monocorde, retorica, non contraddetta, sdegnosa e sprezzante delle altre parole?
Una parola questa discesa dalla diaspora post babelica, la cui superba diversità era enfatizzata proprio per affermare presunte superiorità razziali e culturali. Ritrovare una nuova Babele e un nuovo linguaggio universale potrebbe significare allora, come diceva Umberto Eco, riottenere la chiave di una nuova alleanza e di una nuova concordia.
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