Giovanissimi a parte (ma nella scuola ce ne sono?), tutti ricordano l’aspro dibattito (e spesso la ferma opposizione) che vi fu nelle scuole tra il 2004 e il 2006 quando il Ministro Letizia Moratti ebbe la sventura di introdurre le espressioni “piani personalizzati” e “attività opzionali”.
A proposito della seconda espressione lo “sdegno” di una parte consistente della scuola (soprattutto di quella primaria) veniva motivato con il fatto che in tal modo la scuola si sarebbe trasformata in una sorta di “supermercato dell’offerta formativa” e che le scuole sarebbero state invase da corsi di origami o di uncinetto per assecondare le richieste delle famiglie.
Le cose sono andate ben diversamente e non c’è qui lo spazio per approfondire l’analisi del perché.
Contro la personalizzazione si schierò buona parte del mondo della scuola che faceva riferimento alla Flc e al sindacalismo di base.
L’accusa era esplicita: la personalizzazione contrasta con l’idea (o l’ideologia?) di una scuola di tutti e per tutti ed è la negazione di una scuola che deve garantire a tutti gli stessi esiti formativi.
Senza contare che secondo alcuni la personalizzazione avrebbe avuto come riferimento teorico e filosofico il personalismo cristiano di Maritain.
Riletta a 10 anni di distanza quella polemica appare davvero banale e pretestuosa.
Ma forse 10 anni non sono passati invano, perché se si leggono con attenzione i diversi atti ministeriali in materia di bisogni educativi speciali si scopre che alla base di tutto ci sta proprio l’idea della personalizzazione dei percorsi educativi.
Curiosamente, però, le critiche che si leggono in rete o sulle riviste non riguardano affatto questo aspetto.
Quegli stessi siti sindacali che 10 anni fa tuonavano contro i “piani di studio personalizzati”, ora non dicono nulla in proposito.
Delle due l’una: o 10 anni sono serviti per riflettere, oppure c’è l’idea che trattandosi di circolari non più firmate da Letizia “Morattila” o da “Marystar” Gelmini sicuramente la filosofia sottostante non può che essere diversa (e magari anche accettabile o addirittura “progressista”).
La questione è che, forse, bisognerebbe sforzarsi di partire dai fatti e non dalle ideologie.
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