Sulla presa di posizione dell’assessore all’istruzione alto-atesino contro i voti inferiori al 4 si sta sviluppando in rete un ampio dibattito. E’ intervenuto persino il Ministro dell’Istruzione e del Merito che ha detto che “non dobbiamo far crescere gli alunni nell’ovatta”.
Sulla questione abbiamo intervistato Cristiano Corsini, pedagogista all’Università di Roma Tre.
Ovviamente – esordisce – assegnare un voto sulla scheda è un compito che spetta ai docenti, non agli amministratori o ad altre figure che in aula non mettono piede. Sono i docenti ad assumersene la responsabilità e se stabiliscono che il percorso di apprendimento di un ragazzo sia sintetizzabile con un 3 non vedo perché il parere di un amministratore, di un politico, di uno psicologo, di un pedagogista o di gente che neanche conosce loro o il ragazzo debba incidere sulla loro decisione.
Ma è davvero questo il nodo centrale della valutazione?
Direi di no, a me pare poco intelligente continuare a schiacciare la valutazione sul voto. Il problema non è il 3, il problema semmai sarà per il ragazzo o la famiglia comprendere quali considerazioni abbiano portato i docenti a mettere quel 3, ma anche un 6 o un 10. Il voto, come noto, va inserito sulle schede di fine periodo e al termine dell’anno. È la sintesi finale che rimanda a una serie di valutazioni svolte in itinere.
I voti possono essere “educativi”?
Queste valutazioni per essere considerate educative devono avere due caratteristiche essenziali. In primo luogo, ogni valutazione deve evidenziare punti di forza e/o aree di miglioramento della singola prestazione alla quale fa riferimento. In secondo luogo, ogni valutazione deve fornire al ragazzo indicazioni su come procedere per migliorare il proprio apprendimento.
Se diverse valutazioni con queste caratteristiche portano i docenti a rappresentare sulla scheda l’esito del percorso di apprendimento con un 3, con un 6 o con un 10 sarà perché gli insegnanti avranno ragionato assieme e stabilito che quella sintesi finale è quella più efficace. A meno che non si siano affidati a scappatoie puerili come quella rappresentata dal calcolo della media aritmetica tra voti assegnati in itinere a diverse prove.
Perché lei dice che la “media” dei voti è una scappatoia?
La media aritmetica è una sorta di “stupidità artificiale”, è l’espressione di quella riduzione della valutazione in itinere a voto che disperde la portata informativa che ogni “prova” svolta nel percorso (scritta, orale, laboratoriale) genera sui punti di forza e sulle aree di miglioramento degli apprendimenti di studentesse e studenti. Tra l’altro, un voto emesso sulla base di valutazioni descrittive è molto più preciso e difendibile di un voto emesso ammucchiando numeretti e calcolando un’improbabile media aritmetica tra mele e pere.
C’è chi sostiene che un 3 serve solo ad “umiliare” lo studente
La questione è un po’ più complessa.
Se dopo una prova in itinere viene erogato un numero al posto di riscontri descrittivi basati su punti di forza, di debolezza e su precise indicazioni di miglioramento è chiaro che il problema non è rappresentato dal voto in pagella, ma da tutto ciò che lo precede. L’umiliazione non è un voto basso, ma un voto sganciato da una valutazione in itinere scientificamente e educativamente difendibile.
Secondo lei per quale motivo la discussione sui voti appassiona così tanto persino il mondo politico?
Il punto è che una valutazione scientificamente e educativamente difendibile va costruita smettendola di credere che ottenere dei voti rappresenti una motivazione valida per apprendere. E questa è una faccenda che riguarda tutti, non solo i docenti, ma l’intera società. Riguarda tutti perché comporta che fuori e dentro la scuola ciascuno si assuma precise responsabilità. Per esempio, la politica scolastica dovrebbe investire davvero sulle strutture, dato che con classi con più di 20 alunni è più difficile offrire valutazioni descrittive in itinere. E dovrebbe investire anche sulla remunerazione e sulla qualificazione del personale docente, perché per formulare valutazioni descrittive servono competenze metodologiche che non si sviluppano certo raccattando qua e là CFU a un mercato della formazione che pare pensato per ingrassare qualche “ateneo”. È per questo che si preferisce parlare di voti che di valutazione educativa: i primi disimpegnano, la seconda responsabilizza.
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