In media, dieci insegnanti suicidi all’anno: lo rivela il medico Vittorio Lodolo D’Oria, studioso delle patologie dei docenti. Eppure alla Penisola interessa solo il benessere degli studenti, e sempre più pressante è la richiesta collettiva di supporto psicologico fisso nelle scuole. Richiesta che giunge persino da un noto maître à penser,celebre per la sobrietà del look, l’espressione pacata e la cura nell’evitare polemiche: tale Federico Leonardo Lucia, anni 34, meglio conosciuto come “Fedez”, impegnatissimo nella campagna per potenziare il “bonus psicologo”.
Intanto, però, chi si suicida davvero è il nostro Paese. Non solo per il calo demografico e l’invecchiamento generale, ma soprattutto per come è ridotto e considerato il cantiere che costruisce il nostro domani: la Scuola. Forse per questo tanti insegnanti si uccidono, mentre quasi tutti gli altri vivono malissimo il lavoro quotidiano. Non è facile impegnarsi tanto per 40 anni (tutta la vita lavorativa) con pochi risultati, scarse gratificazioni e un’intensità di concentrazione che poche altre professioni conoscono. Per non parlare degli stipendi miserrimi e delle conseguenti (e ingravescenti) difficoltà economiche; delle crescenti umiliazioni; del continuo sforzo di autocontrollo; della incessante burocratizzazione, che accresce carico di lavoro, scartoffie e ore al terminale; della riduzione a squallidi travet, disprezzati (quando non aggrediti fisicamente) da opinione pubblica, alunni, genitori, superiori.
Che le cose stiano proprio così lo dimostra il fatto che i docenti ormai stanno accettando di tutto. Tutti i provvedimenti governativi degli ultimi otto anni non hanno praticamente incontrato opposizione palese. Il docente medio mugugna, morde il freno, si lamenta nei corridoi; però poi esegue paziente, assiduo, scrupoloso tutto quanto cali dall’alto, senza più provare ad esercitare quello spirito critico che giustamente insegna ai propri studenti.
Eppure i docenti non sono lavoratori subordinati: hanno organi di autogoverno ed autodeterminazione che nessun altro possiede nel Pubblico Impiego, perché — appunto — impiegati non sono, essendo dotati della libertà d’insegnamento: libertà di pensiero e di organizzazione del proprio lavoro che solo uno Stato totalitario potrebbe reprimere per imporre una pedagogia unica (di Stato, appunto). Malgrado ciò, non resistono.
Conta di certo, e molto, l’immagine della loro scuola-azienda, in competizione con le altre per qualche iscritto in più e per il gradimento dell’“utenza”. Lo studente, inteso come cittadino che esercita il diritto all’istruzione, è sparito: ora c’è l’“utente”, anonimo cliente che, in quanto tale, ha sempre ragione.
E all’utente-consumatore piacciono i progetti, le gite, le uscite didattiche, i viaggi d’istruzione, le matinée teatrali, le “Olimpiadi” di matematica, di filosofia, di italiano, di scienze e via gareggiando. Di tutto ciò — e non più di didattica! — si parla nei Collegi dei docenti. Eppure, tra un’olimpiade, un cinema e un viaggio a Praga, troppi nostri ragazzi (uno su cinque!) non sanno più ascoltare, né formulare pensieri complessi, né capire quel che leggono (né accorgersi di non averlo capito), né scrivere meglio di un semianalfabeta. Risultato dei quarantennali tagli all’istruzione; così come gli edifici scolastici pericolosi e deprimenti, le classi troppo affollate, troppo calde e troppo fredde.
Ogni governo, d’ogni colore, fa a gara per intervenire sulla Scuola: misure eterogenee, tutte rigorosamente a costo zero (mentre la spesa complessiva diminuisce), presentate mediaticamente come risolutive e “moderne”, tra trionfalismi e dichiarazioni di grande amore per Scuola e docenti. Mai nessun ministro abolisce i capolavori del governo precedente in materia scolastica, criticando i quali il suo partito aveva preso voti.
Ne consegue una politica scolastica sostanzialmente uguale dal 1982: taglio progressivo delle risorse, burocratizzazione, aziendalizzazione, indebolimento dei docenti, facilitazione del percorso scolastico, parcellizzazione dei contenuti culturali, propensione verso una scuola che prepari al lavoro esecutivo anziché al pensiero critico.
Un fiore all’occhiello avevamo: il liceo classico, frutto della tradizione umanistica e scientifica della trimillenaria civiltà italiana. Lo si sta dismettendo: dopo decenni di propaganda che lo dipingeva come superato e inutile, le iscrizioni calano drasticamente. I detrattori — e i loro mandanti — possono cantare vittoria.
Rotoliamo spensierati verso l’abisso. Accumuliamo problemi come niente fosse, senza provare nemmeno a risolverne uno, voltando sempre la faccia dalla parte opposta. Non solo in materia di politica scolastica.
Tutti i governi continuano finanziare a suon di miliardi pubblici i combustibili fossili, anziché produrre politiche di mitigazione del clima (in veloce surriscaldamento) e di adattamento: nulla si fa per eliminare le emissioni e rimediare alla mutazione del ciclo dell’acqua, a siccità e alluvioni devastanti, alle frane e al crescere del livello dei mari. Gli acquedotti non vengono quasi mai ricostruiti, mentre quelli esistenti perdono metà del contenuto idrico. Se la politica rimane questa, tra due o tre decenni i nostri figli vivranno in un deserto surriscaldato e cementificato, arido e immiserito. È dunque un’esagerazione descrivere il nostro come un Paese che sceglie il suicidio?
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