La politica sta uccidendo il linguaggio

Il testo:
Il linguaggio è una istituzione basilare che permette la convivenza e la condivisione di regole di comportamento fondamentali.
Ma il linguaggio non è “mio” o “tuo” o “suo”: il linguaggio è nostro, è una istituzione al pari della politica, della magistratura, dello Stato, della famiglia, della scuola, della Chiesa.
Il problema che subisce oggi il linguaggio è l’uso improprio che ne viene fatto in ambito politico e mediatico, con una sua progressiva estremizzazione. Questo processo, per quanto a suo modo audace, nel tempo sortisce esiti sempre meno efficaci anche dal punto di vista di chi vi ricorre usando ad es. l’insulto e l’urlo (dove contano il tono della voce e la gestualità che accompagnano l’emissione verbale), il turpiloquio, la derisione beffarda. Più il linguaggio si svilisce e si appiattisce in queste forme, meno esse diventano credibili, pur restando molto pericolose: infatti, come la moneta cattiva scaccia la buona, il cattivo linguaggio tende a eliminare quello corretto, quello che sa distinguere tra i diversi contesti espressivi, in primo luogo tra ambito pubblico e ambito privato, e che sa astenersi da formulazioni offensive.
Faccio due esempi concreti, fra altri possibili. Primo: chiamare rispettivamente “stalinisti” e “nazisti” i giudici e i medici coinvolti in un processo che si sta svolgendo a Milano con imputato l’ex-premier e leader del Pdl corrisponde ad un uso improprio ed esasperato del linguaggio, qualunque sia l’opinione che un cittadino voglia nutrire nei confronti delle parti di un processo.
Secondo: il leader del Movimento 5 Stelle ricorre a nomignoli beffardi nei confronti degli avversari, come Rigor Mortis (Monti), Gargamella (Bersani), pidimenoelle (PD) ecc. Se tali avversari dovessero rispondergli “per le rime”, potrebbero ad esempio rispolverare uno dei primi capitoli di Pinocchio e chiamarlo “Grillaccio del malaugurio”; mi risulta che fortunatamente questo non sia avvenuto. Ma c’è un rischio ancora maggiore: è quello che riguarda la non-comunicazione. Parecchi osservatori hanno notato che il rifiuto del mezzo televisivo è stata la mossa vincente in termini di comunicazione del duo Grillo-Casaleggio. In questi giorni convulsi dopo le elezioni, in cui si susseguono invocazioni, petizioni e interventi accorati rivolti al leader del Movimento 5 Stelle perché sostenga un governo con il Pd o almeno dialoghi con esso, la risposta finora è stata – mi sembra – una non-risposta o una chiusura a priori.
Analogamente, i neo-eletti grillini sono compatti nell’adottare pratiche di riduzione ai termini minimi della comunicazione nei confronti delle altre forze politiche. Lo esprime bene il termine “inciucio”, sconosciuto nella lingua italiana fino a una decina di anni fa (figura nel Supplemento 2004 del Grande Dizionario Battaglia della Lingua Italiana). Ogni forma di dialogo e di contatto con gli avversari viene bollata fobicamente come inciucio, quasi si trattasse di tenere a bada con tale termine una contaminazione ritenuta intollerabile da parte di chi vorrebbe mantenere una verginità assoluta.
Questo però, purtroppo, impedisce di utilizzare il linguaggio come l’istituzione che ha il compito di mettere in relazione individui e gruppi diversi, e in ultima analisi di stabilire aspetti e forme basilari della convivenza. Mi permetto di ipotizzare (in compagnia di molti altri) che tanti elettori grillini abbiano votato il Movimento 5 Stelle non per esorcizzare e bloccare il dialogo ma per contribuire a una rigenerazione profondamente innovativa delle istituzioni, a partire dalla politica.

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