Ci sia consentita una osservazione alle considerazioni del nostro lettore.
Egli sostiene che la docimologia pretende di essere una disciplina scientifica e parla anche di “ideologia assolutistica ispirata alla docimologia ed alla sua pretesa di ‘oggettività’ scientifica”
Non so bene a quali docimologi si riferisca il nostro lettore, ma per quanto mi è dato di sapere le cose non stanno esattamente così. La docimologia nasce in Italia con gli studi di Aldo Visalberghi (Misurazione e valutazione, 1955) e procede poi con le ricerche di Gattullo, Calonghi, Vertecchi e altri. Che qualcuno abbia interpretato questa ampia ricerca come il tentativo di costruire modelli “oggettivi” di valutazione è anche possibile, ma in realtà la docimologia non va alla ricerca della “oggettività” (d’altronde è da almeno un secolo che il mito della oggettività è stato abbandonato dalla scienza). Diciamo che, piuttosto, la docimologia cerca di capire in che modo, con quali strumenti e a quali condizioni sia possibile valutare e misurare alcuni (neppure tutti) aspetti dell’apprendimento degli studenti. Che poi nei processi di valutazione dei discenti, come ben osserva il lettore, si debba tenere conto di molti elementi non misurabili è un fatto che in ambito pedagogico è noto da tempo (R.P.)
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La docimologia è quella branca della pedagogia che pretende di essere una disciplina scientifica che si occupa dei diversi parametri applicabili nei processi di valutazione scolastica. Malgrado la presunta “obiettività” scientifica delle tecniche di verifica all’insegna dei criteri docimologici in voga, la valutazione è un’operazione globale, costante e formativa, nella misura in cui esige l’analisi di un ventaglio di fattori dinamici, di motivi di ordine soggettivo ed interiore, di elementi socio-affettivi, da cui non si può astrarre e che non sono assolutamente misurabili in termini matematici.
In sostanza, nel processo di verifica e valutazione dei discenti occorre tener conto di una molteplicità di fattori di origine psico-emotiva, morale e caratteriale, che interferiscono in maniera inevitabile nel rapporto dialettico tra docenti e discenti e nella prassi didattica quotidiana.
Per cui l’adempimento della valutazione costituisce l’aspetto più complesso, più ingrato e spiacevole della professione docente. Ciò non può ridursi a mero esercizio di calcolo incentrato sui famigerati “quiz” con le crocette. Ormai, quando mi chiedono: “che lavoro fai?”, io rispondo con amara ironia: “addestro piccoli concorrenti per i quiz INVALSI”. Benché sarcastica, la risposta non è affatto distante dalla realtà.
Il guaio è che, in qualunque scuola io abbia insegnato, mi sono imbattuto in tanti colleghi e colleghe a cui aggrada tale “mansione”. O, perlomeno, è accolta in maniera supina. Mi riferisco all’obbligo di somministrare i “quiz” calati dall’INVALSI. L’ideologia più fanatica ed ottusa che mai si sia vista nel mondo della scuola è l’ideologia assolutistica ispirata alla docimologia ed alla sua pretesa di “oggettività” scientifica, ma in realtà pseudo-scientifica. Una velleità autoritaria, che si incarna nel sistema di valutazione INVALSI. Un modello fallito dovunque sia stato applicato.
Un carrozzone clientelare, inutile e costoso, gradito soltanto ai funzionari, ai burocrati ministeriali ed ai dirigenti scolastici. Ormai fare scuola oggi si riduce perlopiù a compiti di sorveglianza degli allievi, ad un parcheggio di giovani disoccupati permanenti, una sorta di “ufficio di collocamento” per futuri precari cronici.
L’opera educativa è stata mortificata da chi per vari lustri ha governato (assai male!) la scuola. Ad esempio, l’animatore digitale è l’ultima delle demagogiche invenzioni lessicali del ministero dell’istruzione (non più pubblica), impegnato da anni a diffondere nelle scuole italiane la “cultura digitale”. Per “cultura digitale” hanno inteso il fatto di dotare le scuole di qualche strumento tecnologico in più e di fornire istruzioni per poter smanettare con un approccio prettamente funzionale. In tal senso, l’impiego del registro elettronico costituisce l’esempio più efficace e paradigmatico della totale balordaggine e dell’insignificanza ai fini culturali, socio-educativi e pedagogici della cosiddetta “dematerializzazione”.
Ma la cosa che rattrista maggiormente è vedere gli insegnanti, i quali dovrebbero avere come “unico” pensiero quello della didattica, cioè delle strategie atte a stimolare meglio l’apprendimento degli allievi, adoperarsi per dimostrare la propria fedeltà al dirigente. A dispetto della celebre affermazione di Piero Calamandrei, il presunto “miracolo” compiuto dalla scuola si rivela esattamente all’inverso: anziché formare dei cittadini, la scuola pubblica italiana sforna dei sudditi, nella misura in cui gli stessi docenti sono stati ridotti in una condizione di profonda sudditanza. La realtà è esasperata ulteriormente dalla legge 107 del 2015 (la famigerata “Buona scuola” del governo Renzi): la discrezionalità dei DS è assai elevata ed esiste il rischio di una “feudalizzazione” della scuola: una crescente condizione di sudditanza psicologica e politica dei lavoratori della scuola nei confronti del capo, il “preside-padrone”.
D’altro canto, tale è la funzione che il potere capitalistico assegna ad un “Apparato Ideologico di Stato” qual è la scuola. Come già affermava, a suo tempo, Louis Althusser ed intuì, alla sua maniera, Pier Paolo Pasolini.
Lucio Garofalo
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