Veneto e Lombardia hanno chiesto che siano loro – le regioni – a gestire la scuola, all’interno di un pacchetto più ampio di autonomie, riferite a tutta una serie di materie.
Niente più – sembra di capire – contratti nazionali, reclutamento su base nazionale, indicazioni nazionali e programmi didattici, se non definiti su base regionale.Già questo è non solo una rottura dell’unità nazionale, ma anche l’affermazione di un’identità che dovrebbe entrare in tutti gli aspetti didattici e culturali. La scuola può farlo già adesso, utilizzandogli spazi dell’autonomia propria di ciascun istituto e riconosciuta dalla legge. E può decidere il “recinto” di ogni attività autonoma, con altre scuole della stessa regione o provincia, o con altre. Di fatto quindi questa proposta rappresenta un passo indietro, che riduce e non aumenta gli spazi di libertà degli istituti.
Ma c’è dell’altro: nelle uscite pubbliche degli esponenti dei due governi regionali appare l’idea di una scuola più legata alla produzione che alla cultura ed alla formazione dei cittadini. La scuola dev’essere professionalizzante? Certo, può essere anche questo, ma il suo obiettivo principale è la formazione di cittadini culturalmente ricchi, europei ed accoglienti, democratici, la diffusione della cultura, contro quell’analfabetismo funzionale che tanto allarma gli studiosi (e che pare far vedere l’Italia ai livelli più bassi fra le nazioni Ocse)
Infine, ultimo elemento: “I nostri soldi – dice qualcuno – devono restare a casa nostra”. Il contrario del principio generale della democrazia per cui si aiuta di più chi ha più bisogno, non chi paga di più. Allontanamento fra le varie regioni, invece che riduzione dei gap economici e sociali. Una scuola che va indietro, invece che avanti.
Lorenzo Picunio
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