La regionalizzazione della Scuola sarà la sua disintegrazione? Chi la vuole sta facendo di tutto per accelerarla: ossia per non sottoporla nemmeno al dibattito — e quindi al controllo — parlamentare.
L’argomento non sembra interessare più di tanto i docenti (la cui libertà è messa fortemente rischio dalla regionalizzazione stessa) né il personale della Scuola. Come se i condomini di un palazzo non si interessassero del fatto che il palazzo stesso sta per essere spianato. Nei Collegi dei Docenti si parla di esami, di RAV, di calendario scolastico. Il resto appare lontano, foss’anche qualcosa destinato a cambiare il destino di tutti. Di regionalizzazione la TV non parla, ergo non pare cosa grave. E poi, c’è in tutti gli umani quel meccanismo di autodifesa dalla paura, che Manzoni mise bene in luce nel descrivere la storia della pestilenza di Milano del 1630: l’automatismo di negazione del pericolo. La peste è un male troppo grande per tornare ancora? quindi non tornerà!
Certo, dai docenti — intellettuali scelti dall’istituzione Scuola per guidare i giovani ed educarne l’intelligenza critica — ci si aspetterebbe qualcosina in più. Gli insegnanti di 30 o 40 anni fa erano di tutt’altra pasta. Si interessavano di tutto, e trasmettevano ai propri alunni passione e interesse per tutte le questioni dell’esistere concreto. Chi ha più di 50 anni è cresciuto in una Scuola pluralista, ove ogni idea aveva voce e filtrava attraverso lo svolgimento dei programmi di ogni materia, perché «l’Uomo è animale politico», e nulla di ciò che è umano può essere considerato estraneo all’Uomo, specialmente se politico stricto sensu. Oggi no. I docenti, per tanti motivi, in massima parte sembrano non pensarla più così. E i risultati si vedono.
131 nuove competenze; in campo non solo amministrativo, ma persino legislativo: “soltanto” questo chiede la Regione Lombardia. Poteri simili trasformerebbero de facto una Regione (ricchissima, peraltro) in uno Stato nello Stato. De facto, ma anche de iure, perché l’accordo tra Stato centrale e Regione sarebbe blindato come un patto tra l’Italia e uno Stato estero, o come il concordato con la Chiesa cattolica (che infatti, per esser modificato, richiede il consenso preventivo del Vaticano). Così però si altererebbe totalmente il quadro dei poteri e delle rappresentanze disegnato dalla Costituzione del 1948. Non dibatterne in Parlamento, non parlarne diffusamente sui media nazionali a più larga diffusione, non informare i cittadini della portata eversiva di un cambiamento simile, significa forse volerne tacere intenzionalmente per farlo passare in modo surrettizio?
Riflettiamo: l’”autonomia differenziata” è solo una questione attinente alla politica e al modo in cui verranno varate le leggi? Se fosse così, qualcuno più sprovveduto degli altri potrebbe credere che la cosa non lo riguardi (visto che l’italiano medio pensa «Francia o Spagna purché se magna»). E invece, proprio chi si preoccupa solo delle proprie tasche non dovrebbe dormire sonni tranquilli. Infatti le bozze d’intesa lo fanno capire chiaramente: i vantaggi economici saranno solo per le tre opulente regioni che hanno richiesto per prime l’autonomia; al contrario, la sovvenzione di questi vantaggi ricadrà su tutto il resto d’Italia (e quindi anche sull’italiano medio di cui sopra). Per questo, da mesi, chi critica la regionalizzazione la definisce “secessione dei ricchi”.
L’uguaglianza dei diritti non è un tema che appassioni la maggioranza degli Italiani? Ebbene, a partire dal dato economico quasi tutti dovranno rivedere le proprie posizioni in materia.
Diversi articoli costituzionali verranno violati. L’articolo 119, ad esempio, che parla di «fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante», nonché di “risorse aggiuntive” e di “interventi speciali” onde «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni». Con quali denari, se le regioni più fortunate tratterranno sul proprio territorio il 90% dei fondi ricavati dalle tasse? Da sempre, in democrazia i ricchi pagano le tasse per garantire servizi ai poveri. Hanno torto, quindi, quanti affermano che la regionalizzazione è la via maestra per sovvertire un principio basilare della democrazia?
A rischio, evidentemente, anche l’articolo 81 (quello che tutela l’equilibrio tra entrate e spese del bilancio statale). E non dice il vero chi sostiene che non saranno toccati i principi fondanti della prima parte della Costituzione, visto che l’articolo 5 considera la Repubblica “una e indivisibile”, ma che tale l’Italia non sarebbe più dopo uno sconvolgimento simile. Il che farebbe carta straccia anche dell’articolo 3 (che tutela la “pari dignità sociale” dei cittadini) e dell’articolo 33 (che difende la libertà d’insegnamento, messa in forse dalla regionalizzazione stessa), giacché le Regioni metteranno bocca anche sui programmi didattici.
Gli insegnanti sono davvero pronti diventare maggiordomi del partito politico al potere in ciascuna Regione? O non preferiranno far sentire (finalmente) la propria voce per respingere la regionalizzazione e mandare casa chi a tutti i costi la vuole?
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