Si chiama “reputazione”. È una delle parole chiave del nostro vivere sociale, quella che ci guida quando stiamo per scegliere un servizio, una funzione, una professionalità, nel pubblico come nel privato.
Quando, da preside, mi accingo a costruire durante l’estate le cattedre dei docenti, al di lá dei criteri generali concordati negli organi collegiali, a partire anzitutto dalla continuità di servizio, so bene quante siano, in alcuni casi, le pressioni, le richieste, anche degli stessi docenti interni per i propri figli, a favore di questo o quel docente.
In poche parole, a scuola tutti sanno chi sono i bravi docenti, quelli che tutti vorrebbero figli: quelli bravi, che sanno appassionare, che condividono la passione educativa e culturale. Quelle caratteristiche che i nostri concorsi non possono cogliere e registrare.
Il problema, per un preside, è non lasciarsi sopraffare da queste richieste, per garantire equità e giusta misura.
Per questi motivi, sono abituato, in tutte le occasioni, a ripetere: per prima cosa, la continuità didattica è funzionale agli studenti, non ai docenti; in seconda battuta, per la pari dignità, è essenziale l’equilibrio tra e nei consigli di classe.
È ovvio che, in questo modo, il preside, volente o nolente, esprime una opinione, dunque una valutazione sui propri docenti, derivante da mille modalità di acquisizione di informazioni, che vanno poi a sintetizzarsi nel concetto di “reputazione”.
Essendo un atto pubblico, la composizione di un consiglio di classe, è dunque evidente che se lo stesso consiglio di classe, nel corso dell’anno scolastico, risulterá sfasato, diciamo così, rispetto alle classi parallele, il giudizio negativo di genitori e studenti andrá a prendere di mira il preside. La stessa cosa per i singoli docenti: se si dimostra inadeguato? Ancora una volta è il preside ad essere preso di mira. Nonostante tutti sappiano che il preside non si sceglie i docenti, a parte i pochi della “chiamata” di quest’anno, essendo costretto ad affidarsi al matematismo delle graduatorie. Una follia, nel mondo di oggi, perché le graduatorie non dicono il valore reale di una professionalità.
Ed è sempre lo stesso preside che si trova nel mirino se fa delle preferenze, oppure se è costretto a cambiare docenti, come in questi giorni, per la fine contratto dei “fino aventi diritto”, o per un ordine nelle graduatorie che, si sa, non garantiscono qualità nelle scelte. Per non parlare delle assegnazioni provvisorie, persino di questi giorni, un vero scandalo, a danno dei nostri ragazzi. Per non parlare di quei docenti e ata che, grazie a medici compiacenti, in una cornice inverificabile, si mettono in malattia facendosi beffe del nostro servizio pubblico.
Alla fine: “preside, perché non fa qualcosa?”. Dunque, colpa del preside.
I presidi sono come i sindaci dei comuni: alla fin fine, sono i responsabili primi e ultimi, per le cose che vanno e per quelle che non vanno. Il criterio di reputazione, dunque, viene rivolto anzitutto a loro. Se riescono, o meno, a tenere una barra nella propria scuola, o se ne infischiano, nascondendosi dietro,alle normative.
La cosa paradossale, nel mondo della scuola, è che questa reputazione, esclusa dal criterio delle scelte dei docenti e ata, ma anche dalla assegnazioni degli stessi presidi alle scuole, tutti la pretendiamo per i nostri interessi pubblici e privati, ma la neghiamo se qualcuno prova a proporla come criterio qualitativo nella nostra vita scolastica. Si è visto, infatti, come sono state trattate le due sperimentazioni di qualche tempo fa coordinate da Giovanni Biondi al Miur. Guai a parlarne, tutti bravi a criticare.
Tanto per capirci. A fare più pressioni per questo o quel docente, in una scuola, quando si fanno le cattedre, sono, per mia esperienza, prima di tutto, gli stessi docenti che hanno i loro figli nelle mie scuole. I più critici, pronti a chiedere e a pretendere. Non tutti, ma diversi sì.
Quando cambierà qualcosa nel mondo della scuola? Difficile, sino a che non verrà tolta la selezione del personale dalle grinfie ministeriali, quando cioè verrà rotto il monopolio ministeriale nella gestione di tutto il personale. Ci vorrebbero delle agenzie esterne o basta costruire delle selezioni locali, magari per “reti di ambito”?
Sarebbe interessante sperimentare nuove strade.