Ha stupito la notizia del “gran rifiuto” del Liceo Albertelli di Roma (e di altre scuole italiane) ai progetti di tecnologizzazione della didattica legati ai fondi del PNRR. Riflettendoci su, però, ci si potrebbe semmai stupire del fatto che solo poche scuole si siano opposte. Infatti, le argomentazioni sostegno del diniego non erano poi così peregrine: ci si è rifiutati, in sostanza, di avallar l’uso della tecnologia non come strumento di studio, ma come grimaldello usato per addestrare i discenti a diventare clienti passivi dei colossi “GAFAM” (cosa che i giovanissimi sanno già fare molto bene). Colossi fondati non per aiutare i docenti a istruire ed educare, ma per guadagnare miliardari profitti fidelizzando i clienti mediante meccanismi di dipendenza; con buona pace, tra l’altro, dell’obbligo per l’istituzione Scuola di utilizzare piattaforme pubbliche — il Codice dell’Amministrazione Digitale (d.lgs. 82/2005) obbliga le Pubbliche Amministrazioni ad adottare software libero — e di non violare la normativa sulla riservatezza dei dati.
Ne siamo convinti: in massima parte le scuole non hanno reagito perché il ministero ha adottato un sistema vincolato, che obbligava a utilizzare i fondi solo al fine di adottare le nuove tecnologie, pena l’imposizione tramite scelte gestite direttamente dal ministero stesso.
Purtuttavia, già solo dieci anni fa il numero di scuole renitenti sarebbe stato comunque molto maggiore, e non certo per ottusità o per “luddismo” (come molta stampa si è affrettata a sentenziare), ma perché negli ultimi decenni è stata profondamente modificata la composizione della categoria docente. Oltre a ciò, è stata intaccata la sensibilità del docente medio e la sua consapevolezza di sé, nonché la sua coscienza della propria dignità di professionista dell’istruzione: risultato ottenuto con 30 anni di incalzante riduzione del suo potere d’acquisto, del suo status giuridico, dei suoi diritti, della sua rilevanza sociale, della sua considerazione da parte del resto della popolazione italiana.
Tutto ciò ha indotto in molti docenti quella che il sociologo e psicologo Leon Festinger (1919-1989) definì “dissonanza cognitiva”: ossia il processo psicologico che conduce pian piano a ridefinire se stessi fino ad essere e a fare il contrario di quanto si pensava precedentemente.
Qualche esempio? Tutti noi cerchiamo di evitare chi ci pare antipatico, opportunista, autoritario e scorretto, in base a un sistema di valori che ci porta a definire una persona di tal genere. Se però non possiamo evitarne la compagnia — perché magari quella persona è amica del nostro partner, o cara ad amici, o a nostro figlio, oppure è nostro superiore sul posto di lavoro — iniziamo a far “buon viso a cattivo gioco”, ridefinendo pian piano i nostri giudizi di valore per farli combaciare coi giudizi di fatto sulla persona che ci infastidiva; oppure cerchiamo di non riscontrare più nella persona “antipatica” i difetti che prima non consonavano coi dati a nostra disposizione.
Fenomeno oggi molto diffuso. Gi italiani, ad esempio, conoscono bene due dati: che la Scuola pubblica è stata (grazie ai suoi docenti) loro utile; e che le scelte politiche degli ultimi 30 anni l’hanno fortemente danneggiata. Tuttavia la scarsa voglia d’impegnarsi per difenderla, e la necessità di far scelte coerenti con le proprie consapevolezze, spingono gran parte dei nostri connazionali a negare con convinzione entrambi i dati. Dissonanza cognitiva: se la realtà contraddice i nostri valori, inducendo in noi un conflitto doloroso, siamo capacissimi di ridefinire i nostri valori per negare a noi stessi il conflitto tra valori e scelte.
Insomma, nella scelta tra coerenza e comodità, la maggior parte sceglie la seconda, specie in determinati momenti storici, gruppi umani, categorie sociali.
Nel capolavoro di Steven Spielberg “Schindler’s List”, ad esempio, le persone, perseguitate dai criminali nazisti perché di religione ebraica, precipitano sempre più verso la propria distruzione, ridefinendo continuamente la propria consapevolezza su quando accade, nella continua illusione che «peggio di così non potrà capitarci»: meccanismo che le aiuta certo a sopravvivere psicologicamente, impedendo però loro di prender coscienza della realtà.
Così, i docenti sanno che tutto quanto danneggia la Scuola sta distruggendo anche loro (d’altronde la Scuola è costruita — né potrebbe essere altrimenti — sul lavoro quotidiano dei docenti, ed è ad essi indissolubilmente legata). Eppure molti docenti negano questa dolorosa realtà, o fingono di non vederla.
Ecco perché, mentre i miliardari che lucrano sulla tecnologia telematica dichiarano esplicitamente che un giorno l’”intelligenza artificiale” sostituirà i docenti, i docenti stessi, candidamente, fanno di tutto per mostrarsi convinti della necessità di “aggiornarsi” sull’uso delle cosiddette “nuove tecniche didattiche fondate sulla tecnologia”, che prima o poi li sostituiranno.
Pochi si chiedono, peraltro, se non sarebbe più consono alla propria etica professionale porsi le seguenti domande: quale società andiamo a costruire? Stiamo teorizzando un mondo in cui la conoscenza umana non si basi più sull’interazione tra giovani e anziani? Stiamo preparando le basi per l’indottrinamento delle giovani generazioni da parte di un Pensiero Unico, sottomesso ad un “Educatore Unico”, cui un giorno basterà programmare un computer per addestrare tutti i giovani — come polli da allevamento — mediante poche migliaia di robot?
Ecco perché la scelta controcorrente (e giusta) del Liceo Albertelli e di poche altre scuole d’Italia — rari nantes in gurgite vasto — rimane sporadica, e fa notizia più per la sua unicità che per la giustezza dei princìpi che l’hanno ispirata.
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