Giovedì 13 maggio è stata la giornata mondiale della lentezza e, quindi, abbiamo pensato fosse necessario un momento per fermarci e riflettere, anche sulla scienza. La scienza, lo diciamo sempre, non è perfetta, ma funziona. Basti pensare che un secolo fa la speranza media di vita in Italia superava di poco i 50 anni, mentre nel 2019 era di 81 anni per gli uomini e 85 per le donne.
Tuttavia i progressi teorici e tecnologici richiedono tempo, un tempo che spesso non è in linea con le nostre aspettative e con le necessità di un individuo, soprattutto in una società dell’informazione come la nostra dove il bisogno di essere informati e aggiornati in continuazione ha raggiunto livelli impensabili fino a qualche anno fa. Questa dissonanza produce effetti pericolosi fra i quali il bisogno di fornire costantemente risultati.
Quelle che spesso definiamo bufale o, se preferite fake news, sulla scienza non sono sempre notizie false; molto spesso sono notizie trasmesse impropriamente che trasformano un primo risultato ottenuto in laboratorio, ancora lontanissimo dalla validazione e dalle sue possibili applicazioni tecniche, in “scoperta”. Questo crea una profonda frattura tra scienza e società civile nel momento in cui le aspettative di chi legge non trovano riscontro nella realtà. E le colpe di una cattiva informazione (imputabile anche a scienziati in cerca di visibilità o profitto) ricadono sulla scienza tutta.
Il problema però non è solo esterno, non viene solo dalla percezione che della scienza si ha, ma è una questione interna che sta cambiando il modo di fare ricerca. “Publish or perisch”, pubblica o muori, per usare una frase diffusa nel mondo accademico. I ricercatori di tutti i settori scientifici, dalla storia alla fisica, sempre più afflitti dal precariato sono costretti a produrre il più possibile nel minor tempo possibile, in un sistema di valutazione che predilige la quantità alla qualità. I finanziamenti nazionali e internazionali premiano progetti per ottenere risultati specifici, immediatamente spendibili sul piano tecnologico, a discapito di idee magari più ambiziose, ma sul lungo periodo rivoluzionarie.
Darwin ha lavorato 28 anni alla sua teoria. Non dobbiamo dimenticare che se molti scienziati del passato avessero dovuto consegnare i propri risultati in sei mesi o un anno, non avremmo ottenuto gran parte delle scoperte che hanno segnato il nostro tempo e la nostra fortuna. Non dobbiamo dimenticare che la scienza non è solo applicazione tecnologica, ma rappresenta un percorso filosofico, un’opera antropologica che, deve tener conto delle esigenze sociali ed economiche, ma non può dipendere solo da queste. Non dobbiamo dimenticare che per fare grandi scoperte serve tempo, a volte una vita intera, a volte più generazioni di studiosi che lavorano senza produrre qualcosa di apparentemente tangibile.
Oggi invece i grandi finanziatori pubblici e privati puntano più sull’innovazione che non sulla conoscenza. Il valore di uno scienziato o di un gruppo di ricerca si misura in tecnologie realizzate. E questo è molto pericoloso: perdere il valore della scoperta in sé, dell’esplorazione, della meraviglia del conoscere, del trovare risposte, ci proietterà in una società tecnologica, ma non scientifica, dove vi è innovazione, ma non progresso.
Se vogliamo invece mantenere vivi i valori che hanno dato vita e forma al nostro benessere, dobbiamo elogiare la lentezza della scienza, il suo aspetto più filosofico e creativo, dobbiamo tutti fare in modo che la conoscenza torni a disporre del tempo che necessita.