La vicenda dei maestri col diploma magistrale, che sta catalizzando l’attenzione dei media e della politica nell’ultimo mese, ci dice molto del paese in cui viviamo.
E se su molti media campeggiano titoli acchiappa-consensi, capire i termini della vertenza diventa del tutto secondario.
In un’epoca in cui le notizie si bruciano in fretta, la comunicazione emozionale funziona più dell’analisi. Basta dire che ai maestri diplomati è stato impedito di insegnare, perché ormai ci vuole la laurea! Ma è vero? No.
La questione fondamentale non è il titolo posseduto, ma il sistema di reclutamento degli insegnanti per i contratti a tempo indeterminato.
La storia si complica ulteriormente se consideriamo che le parti coinvolte sono diverse: ci sono sì le maestre che fanno lo sciopero della fame, ma anche i vincitori di concorso, i precari storici. E ci sono i laureati e studenti in Scienze della Formazione primaria, gli ultimi arrivati. Quelli che osano sperare di sottrarsi a 10 anni di precariato.
Legalmente la vertenza si è chiusa con una sentenza dell’assemblea plenaria, che ha stabilito che il diploma magistrale ante 2002 è titolo utile all’insegnamento al pari della laurea, ma non è sufficiente, sempre al pari della laurea, per accedere a contratti a tempo indeterminato nella scuola dell’infanzia e primaria. Per quello è necessario vincere un concorso. Lo dice la Costituzione.
Ora i ricorrenti reclamano a gran voce una “soluzione politica”. Ma la politica, quella vera, si fa con lungimiranza. Dovremmo tutti sapere che le scelte di oggi non generano solo delle conseguenze immediate, ma anche sul medio e lungo periodo.
Al di là delle ragioni delle parti, resta da fare una riflessione politica sulla vicenda, che si configura come uno scontro fra visioni del mondo. Da una parte l’idea che chi arriva prima, prima deve “sistemarsi”, non importa se con pieno diritto o solo facendo la voce grossa. Dall’altra quelli che chiedono una selezione uguale per tutti, che dia possibilità di stabilizzazione a chi merita, non solo a chi, per volontà o solo per mere questioni anagrafiche, è arrivato prima.
La scuola non è un ammortizzatore sociale, è duro da dire, ma se vogliamo che il nostro sistema scolastico sopravviva al futuro che ci sta piombando addosso, dobbiamo cambiare mentalità. I maestri non sono più mamme e papà dal piglio ora dolce, ora severo, spinti da una generica, quasi mistica “vocazione”.
I docenti di oggi devono essere flessibili, capaci di lavorare collegialmente, mantenendo autonomia di pensiero, facendo ricerca costante e validando i propri risultati con una documentazione costante e un metodo rigoroso.
Dobbiamo constatare una volta di più che la nostra società è ancora intrisa di una visione del mondo populista, immobile, che conserva la retorica di un passato paternalista, avendone smarrito i contenuti e la spinta egualitaria. Una retorica che si ferma alla lotta fra diplomati (che rappresenterebbero il popolo) e laureati (che invece sarebbero espressione delle élite). Non ci siamo accorti che il mondo è cambiato e che se preserviamo i diritti, o presunti tali, di pochi, il paese muore e le ingiustizie aumentano. Se togliamo ai giovani la possibilità di dimostrare la propria competenza, relegandoli in un angolo in nome di una non meglio identificata gavetta, stiamo facendo politica nel modo peggiore possibile.
Al momento non si vedono all’orizzonte soluzioni di ampio respiro, che riflettano sul ruolo della scuola e sul futuro dei propri studenti.
Quelli che sulla formazione e sulla competenza hanno puntato tutto, non avranno la possibilità di essere messi alla prova e prima o poi se ne andranno da questo paese. Lo lasceranno ai ricatti, al paternalismo nostalgico, ai titoli urlati e alle toppe proposte da politici che vogliono solo accaparrarsi un pugno di voti.
Oppure resisteranno, perché credono che fare l’insegnante sia qualcosa di più che accaparrarsi un impiego pubblico calpestando i diritti degli altri.
Antonietta Bonanno, Coordinamento Nazionale Scienze della Formazione Primaria N.O.