Respirare l’aria, parlare, passeggiare, afferrare qualcosa con la mano!
Essere questo incredibile Dio che io sono!
O meraviglia delle cose, anche delle più piccole particelle!
O spiritualità delle cose!
Io canto il sole all’alba e nel meriggio, o come ora nel tramonto:
tremo commosso della saggezza e della bellezza della terra
e di tutte le cose che crescono sulla terra.
E credo che una foglia d’erba non sia meno di un giorno di lavoro delle stelle.
E dico che la Natura è eterna, la gloria è eterna.
Lodo con voce inebriata
perché non vedo un’imperfezione nell’universo,
non vedo una causa o un risultato che, alla fine, sia male.
E alla domanda che ricorre “Che cosa c’è di buono in tutto questo?”
La risposta è: che tu sei qui, che esiste la vita, che tu sei vivo.
Che il potente spettacolo continua
e tu puoi contribuire con un tuo verso. (Withman)
Quando arrivo all’ingresso, un attimo prima di solcare il portone e ritrovarmi nell’atrio interno della mia Scuola, vorrei poter recitare queste o simili parole. Gridarle. Urlarle. Perché ognuno si fermi, un attimo appena, arrestando la corsa, arrestando il refrain didattico, capovolgendo la lezione, la classe, il laboratorio. Come una finestra aperta, e l’aria nuova a spostare quella cattiva dell’ambiente “chiuso”. E destare da quella apatia dell’abitudine mista alla noia, che accompagna e caratterizza il feriale dei volti dei nostri studenti: soldatini che ripetono e ripetono e ripetono ogni gesto, ogni sedersi, ogni distrazione, attendendo la fine della lezione e del giorno stesso di scuola.
Quando arrivo all’ingresso, un attimo prima di solcare il portone, vorrei poter incontrare gli sguardi, i volti stanchi già dal primo minuto ancor prima della lezione, alla prima ora del big ben didattico. Volti che soltanto il senso morale induce a strappare un quasi finto o obbligato sorriso, che cela la denuncia di una aspettativa di qualcosa di cui però si è consci il tardare. E così, puntuali, ogni giorno.
Quando arrivo all’ingresso, un attimo prima di solcare il portone, vorrei ritrovarmi in cerchio con gli altri, tutti: studenti, colleghi, dirigenti, personale Ata, con il mondo scolastico, con le persone umane, e incontrare i loro occhi e recitare con loro e per loro le parole in poesia di Withman, e avvertire il brivido del loro soffio che tradisce una emozione quasi a sussurrare: io sono, io esisto. E rapirci, rapirsi, regalandoci, tutti, la attenzione su ognuno, su noi, e ripossedere il senso, il valore, la cultura, la bellezza, la poesia, di noi, ognuno di noi, malgrado tutto, malgrado questo tempo nostro così stordente, così pandemico, e non soltanto dal punto di vista del Covid, così racchiuso nell’IO, per paure che ci hanno indotto, come inoculate nel cervello, sulla pelle della nostra ferialità, di uomini e donne, giovani e anziani. Quasi davvero a guardare l’altro e additarlo come untore.
Quando arrivo all’ingresso, un attimo prima di solcare il portone, vorrei che tutti computer si spegnessero, e con essi ogni strumento, financo i cellulari. E tutto fosse silenzio quale ascolto del noi, dell’io, per rimembrare che siamo fatti di ali, in grado di condurci oltre i numeri, le pagine consunte di storia o di letteratura, e comprendere che siamo noi poesia, storia, bellezza. Il refrain.
E così lanciare i nostri ragazzi al loro futuro non dimenticando di stare attenti che la vita è in quel loro essere adolescenti, e assorbire tutto il nettare della loro adolescenza: la bellezza di incontrarsi tra i banchi e i corridoi della Scuola, e sgaiottolare su per le vie e le piazze della città o del paesino perché l’incontro non sia più o soltanto virtuale, ma emozione vibrazione odore e sapore di vita, di vivo.
Quando arrivo all’ingresso, un attimo prima di solcare il portone: vorrei ci fosse un inchino per la riscoperta o ri-consapevolezza che la vita, il mondo, comunque resta il soffio della Vita che in essa VIVE: respirare l’aria, parlare, passeggiare, afferrare qualcosa con la mano! Essere questo incredibile Dio che io sono!
Mario Santoro
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