I lettori ci scrivono

La Scuola che vorrei: tra valori, merito e realtà

Ho sempre pensato che la scuola dovesse essere quel luogo sicuro, limpido, corretto e tanto altro di buono, in cui noi docenti possiamo operare per trasmettere ai ragazzi non solo conoscenze, ma anche valori. Tuttavia, dopo sette anni di insegnamento, mi sto rendendo conto che qualcosa non funziona, a partire dal sistema di reclutamento, che fa acqua da tutte le parti, perché non premia il merito né valorizza chi realmente si impegna e dà il massimo per i ragazzi.

Un sistema che non funziona

Nel corso della mia esperienza ho visto docenti che, invece di essere figure di riferimento, si abbassano a un livello di confidenza inappropriata con gli studenti, tanto da scambiarsi cartine per le sigarette e fumare insieme sulla soglia della porta o addirittura in aula. Ho visto colleghi permettere agli allievi di giocare a carte napoletane in classe, mentre loro leggevano il giornale. Altri, invece, preferiscono prendersela comoda e fare poco o nulla, disinteressandosi del fatto che il loro compito è formare i ragazzi affinché un domani possano trovare il proprio posto nel mondo.

Poi ci sono quelli che trattano la scuola come se fosse un centro ricreativo. Mi è capitato di assistere a docenti che, durante l’ora di sostituzione, invece di tenere i ragazzi in classe e magari proporre attività didattiche, compiti o un ripasso, portavano gli studenti al bar, quindi fuori da scuola, senza alcun controllo e senza rispettare regole o logica. Mi chiedo quale esempio possa essere dato ai giovani se un docente, la figura che dovrebbe guidarli e formarli, li accompagna a bighellonare fuori dalle mura scolastiche.

Inoltre, ho assistito a situazioni paradossali, di quelle che spesso leggiamo sui quotidiani, in cui alcuni docenti, dopo aver firmato il contratto, scomparivano nel nulla tra malattie e permessi vari, impedendo una continuità didattica per gli studenti e lasciando il lavoro sulle spalle dei colleghi, con evidente difficoltà a seguire al meglio la classe e a garantire uno svolgimento corretto del programma.

Questa mancanza di continuità penalizza gravemente i ragazzi, che hanno diritto a una formazione stabile e strutturata. Eppure, chi realmente si dedica e vuole fare la differenza, troppo spesso si trova ostacolato da un sistema che demotiva.

Un concorso che penalizza

Ho partecipato al precedente concorso docenti, sperando di poter entrare di ruolo, e vorrei raccontarvi com’è andata.
Dopo aver superato la prova scritta, sono arrivato all’orale, dove ho presentato una lezione simulata.
Successivamente, ho dovuto estrarre una busta contenente due domande. La prima riguardava un tipo di componente che, in teoria, dovrebbe trovarsi nelle scuole tecniche come gli IPSIA e gli ITIS, ma che, in realtà, è presente solo in pochi istituti. Inoltre, il tipo di trattazione richiesta dipende anche dall’indirizzo scolastico: molte scuole tecniche non affrontano determinati argomenti proprio perché non fanno parte del piano di studi. Ho quindi ammesso alla commissione di non sapere la risposta, perché non avevo mai affrontato quell’argomento nella mia esperienza didattica, e la mia scuola non possiede neanche quel componente.
La seconda domanda riguardava dei sensori, dispositivi che utilizzo quotidianamente con i miei allievi e che avrei dovuto saper trattare con sicurezza. Pensavo di aver risposto correttamente, ma l’esito della prova mi ha smentito: il voto assegnatomi è stato basso, segno che la mia prestazione non ha soddisfatto la commissione.

Magari l’ansia, la preoccupazione, o semplicemente il contesto mi hanno portato a esprimermi male. Un elemento che potrebbe aver influito è la mia situazione personale: sono parzialmente privo di udito e indosso una protesi.
Questo mi provoca disagio e ansia, soprattutto in situazioni formali come un concorso. Non è affatto semplice rimanere concentrati quando non si sente bene o si teme di non aver capito esattamente le parole di chi ci sta di fronte.

Non so se questo sia stato considerato adeguatamente, ma non ha aiutato di certo la mia prestazione.
Nonostante il risultato negativo, non ho intenzione di fermarmi: prenderò questo fallimento come un’opportunità per riflettere, migliorarmi, studiare di più e tornare più preparato al prossimo concorso. Perché personalmente, finché avrò la fortuna e la possibilità di insegnare e di poter contribuire ad aiutare qualcuno nel mio piccolo con il mio operato, lo farò volentieri.
Se poi sarà destino che debba essere tagliato fuori da questo sistema, dico pazienza: andrò a fare qualcos’altro. Non dipende da me se questa scuola non funziona come dovrebbe.

La beffa dell’inadeguatezza

Quello che ho vissuto al concorso è stato umiliante, offensivo, mi sono sentito preso in giro. Durante la prova pratica mi è stato chiesto di usare un certo dispositivo che nelle scuole, soprattutto quelle tecniche, in teoria, dovrebbe esserci, ma che nella pratica non c’è. Questo dispositivo era un relè ausiliario, componente che dovrebbe far parte della dotazione di base di tutte le scuole tecniche, ma che, nella mia esperienza, non ho mai potuto utilizzare perché le scuole non dispongono di tali materiali. Anche la commissione è rimasta perplessa quando ho fatto notare che nella scuola in cui insegnavo non c’erano nemmeno cavi elettrici per effettuare le esercitazioni pratiche. La risposta è stata un’esclamazione di sorpresa: “Possibile?” Sì, è possibile. È la realtà con cui molti docenti devono fare i conti ogni giorno.

Nel contesto della prova pratica, la mia preparazione era valida, ma l’assenza di strumenti adeguati e l’impossibilità di mettere in pratica quanto appreso mi hanno penalizzato. Il risultato? Non sono passato. Il sistema mi chiede di utilizzare un componente che nelle scuole non c’è, di preparare lezioni su argomenti che non posso trattare, e poi mi boccia per la mancanza di competenze pratiche che, per ovvie ragioni, non posso sviluppare.

L’assurdità delle aspettative e delle risorse

Ci viene chiesto di essere super preparati, di fare di più, di aggiornarci continuamente. E poi? Nella scuola manca di tutto. Come si può conciliare l’aspettativa di una formazione all’avanguardia con la mancanza di strumenti?
Anche se investo del mio, cosa posso fare se non ci sono le attrezzature di base? È come voler formare un cuoco senza pentole o ingredienti: può studiare tutte le ricette del mondo, ma senza la possibilità di cucinare rimarranno solo parole su un foglio.

Ogni anno faccio richieste per nuove strumentazioni, per aggiornare il laboratorio, per portare i ragazzi a fare esperienze pratiche. Ma ogni volta mi viene detto che non ci sono soldi. Sembra che la scuola stia cadendo a pezzi e che le speranze di costruire una generazione preparata si infrangano contro un muro di indifferenza e mancanza di risorse. Ho anche vinto un ricorso per ottenere la carta del docente, strumento che sarebbe fondamentale per poter acquistare materiale didattico e formarmi ulteriormente, ma essendo ancora un docente precario, non mi è stato ancora concesso. Fino ad oggi, qualunque spesa per aggiornare le mie competenze, corsi di formazione, libri o attrezzature l’ho sostenuta di tasca mia.

La Scuola che vorrei

Vorrei una scuola diversa. Una scuola dove il merito sia premiato, dove chi si impegna e si forma venga riconosciuto per i suoi sforzi. Vorrei una scuola con risorse adeguate, dove ogni docente abbia gli strumenti per fare la differenza e ogni studente abbia la possibilità di diventare un cittadino consapevole e preparato. Non possiamo fermarci a parole vuote: servono fatti, investimenti e una visione che vada oltre il “non ci sono soldi”.

Fino ad allora, continuerò a lottare per quella scuola che vorrei, anche se sembra solo un sogno lontano.

Fabio Gangemi

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