Più che “Buona Scuola” – “buona”, immagino, vale ormai come auspicio a tutt’oggi irrealizzato – restando sul piano della pura constatazione della realtà, la scuola italiana dei due primi decenni del Duemila, a tutti i suoi livelli, è un ibrido.
Non è più la scuola di un Secolo fa, ma neppure quella di vent’anni fa.
Certamente non è (ancora?) una scuola davvero autonoma – altra constatazione, che però esprimo in forma di domanda: quanto l’autonomia viene sbandierata ad ogni occasione e quanto poi è ignorata sistematicamente o addirittura stravolta de facto? – moderna e davvero in grado di affrontare le vere sfide di oggi, le autentiche emergenze educative che sono sotto gli occhi di tutti: dal deflagrare della diseducazione in tutte le sue forme, che sfociano in bullismo, cyberbullismo, teppismo, vandalismo, ecc…, all’analfabetismo di ritorno (ci si accorge ora che si è persa la “competenza” di scrivere correttamente nella propria lingua madre? Sull’altare di quali altre “competenze” è stata sacrificata?) alla sistematica ed esibita ignoranza dei fondamenti di una minima cultura di base (ma forse di questa, oggi a differenza di ieri, possiamo fare a meno?).
La scuola è stata “contaminata” (quanto positivamente lo decida ciascuno) da tante, troppe istanze allogene.
Al suo interno deve trovare ospitalità praticamente di tutto e di più, privilegiando la quantità del nuovo a qualunque costo e riducendo lo spazio del vecchio (sempre e comunque da rottamare?) fino a farlo sparire.
La scuola è stata aperta, direi spalancata, e vi hanno preso stabile e confortevole dimora pratiche e operatori che di essa poco o nulla sanno né vogliono sapere.
Ma tale apertura si è ipso facto tradotta in un miglioramento sostanziale dell’offerta formativa e in un’analoga apertura di mentalità dei docenti e dei discenti, in una maggiore acquisizione di flessibilità didattica ed operativa? Personalmente ho molto dubbi in merito.
Per governare la quantità non abbiamo trovato altro modo che quello italico di sempre: la burocrazia. E così, via con rinnovata foga a scrivere e a far scrivere molto di più di vent’anni fa, a produrre sempre più carta: progetti e programmazioni di ogni tipo, PON che spuntano ora come funghi, verbali per ogni anche minima riunione, dichiarazioni di ogni risma, richieste di ogni sorta… con buona pace di ogni promessa di dematerializzazione e di deburocratizzazione.
La valutazione, in perfetta coerenza e anche questa a tutti livelli, lo si fa sul QUANTO, mai sul COME: esattamente come se, per giudicare della bontà di una torta, bastasse verificare l’elenco degli ingredienti che contiene senza preoccuparsi di assaggiarla.
Oppure la valutazione la si fa sull’aspetto, sull’apparenza: nell’esempio della torta, basta che si presenti bene. Se poi per caso la si assaggia e fa schifo, pazienza!
Sulla larga strada del QUANTO, intrapresa trionfalmente con squilli di tromba e rulli di tamburo, auspici tutti coloro che in ciò vedevano una razionalizzazione (del tutto farlocca! in realtà, un furbo espediente per far cassa riducendo gli investimenti nel settore più improduttivo di tutti, l’istruzione), furono abolite d’un tratto le piccole scuole.
L’autonomia la si è data (?!) solo a condizione di creare prima i megaistituti da migliaia di alunni e centinaia di docenti, anche se il contesto di riferimento spesso è la cittadina e non la megalopoli.
L’abdicazione di una prospettiva umanistica, considerata oggi del tutto retriva – salvo poi magari ascoltare con sorpresa che il nuovo Presidente francese nel suo primo discorso auspica un neoumanesimo! – ha determinato il convincimento che tutto sia misurabile e che il giudizio di valore scaturisca da un insieme di automatismi.
Visto dunque che il COME non è quantificabile e non si lascia ridurre in schemi, in formule, in griglie – strumento oggi docimologicamente indispensabile, dalla scuola materna all’Università, considerato la panacea alla scriteriata e autoreferenziale valutazione di una volta – non ha scientificamente alcun diritto di esistere.
Riprendendo però l’immagine della nostra torta, sarebbe bene non dimenticare che, volenti o nolenti, ad assaggiarla poi siamo tutti.
Bisogna allora riflettere bene prima: ridurre il numero degli ingredienti (il troppo stroppia sempre, in ogni contesto, in gastronomia come in didattica) e preoccuparsi di più magari di chi li amalgamerà e cucinerà e di quali strumenti avrà a disposizione per ciò.
E soprattutto dare molto più importanza al risultato finale (oggi il primato è al percorso, alla procedura), al sapore che avvertiamo e che resta in bocca.
Ho affermato prima che la scuola di oggi è molto diversa da quella di cent’anni fa.
Ripensandoci, forse neppure troppo.
Anche allora, a ben guardare, era in auge la scuola del QUANTO, del nozionismo fine a se stesso: era bravo chi sapeva, non chi capiva.
Fu una rivoluzione straordinaria quella avvenuta negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso: la rinuncia, convinta e liberatoria, a quel nozionismo, a quella quantificazione della cultura e l’adozione di una didattica improntata ai valori della curiosità intellettuale, della formazione del gusto e della personalità, dell’acquisizione della consapevolezza critica, della cura della persona, considerata prima e sopra tutto come essere umano da aiutare nel suo percorso di crescita, non come utente o cliente o apprendista o cos’altro ancora.
Cos’è rimasto, oggi, di tutti questi nobili convincimenti? Li abbiamo spazzati via perché non sono produttivi, non funzionano più? E siamo sicuro, continuando ad operare così, di star davvero “progredendo”, cioè “andando avanti”?
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