I lettori ci scrivono

La scuola delle disabilità

Dispensato da leva militare o surrogati, per magnanime virtù anagrafiche, a volte mi chiedo se fosse opportuno progettare un Servizio civile obbligatorio, anche breve ma ad ogni modo in situazioni difficili, da svolgersi entro una certa età (25 anni?).
L’ultima volta me lo sono chiesto grazie al pasticciaccio di Antonello Venditti a un concerto: insulti a una donna con disabilità e scuse ex post.

L’episodio mi ha spinto a ripensare a una settimana di lavoro che svolsi in un soggiorno estivo quando avevo 23 anni, e che per la mia formazione valse più di un anno di scuola almeno.

Grazie agli Scout, da ragazzino avevo già conosciuto le diversità, ma non avevo mai fatto volontariato con persone con gravi disabilità.
Quell’estate, studente di Cooperazione a Roma, inviai il curriculum a una cooperativa, su consiglio d’un compagno di corso che aveva svolto egli stesso l’esperienza in precedenza.


Insieme a un trentacinquenne, mi presi cura di un ragazzo poco più grande di me. Era in sedie a rotelle, impossibilitato a muoversi, a parlare o a comunicare a gesti: una notevole disabilità fisica e cognitiva. Quando era contento, però, Antonio lo manifestava benissimo.
Ed ero contento anch’io, perché prendendomi cura di lui – insieme a un collega più saggio ed esperto di me – stavo imparando a gogò sulla vita.

Soltanto, provavo particolare inquietudine quando, dopo che lo avevamo lavato, Antonio si guardava allo specchio in bagno; mi chiedevo: «Si renderà conto di sé?». Una risposta non l’ho mai trovata.
Ma ne arrivò un’altra ben più preziosa, per una situazione diversa, che mi rendeva molto più inquieto rispetto a quella di Antonio. Emozioni e pensieri che nei primi giorni mi terrificavano l’animo: riguardavano una ragazza malata di grave spasticità.  Il fatto che fossimo nati nello stesso anno amplificava il mio sballottamento interiore: lei sarei potuto essere io.
Nelle attività comuni – dalla piscina ai pasti al lungomare – il mio sguardo non riusciva a sostenere la figura di Marta, quando la incrociava.
Ero in una fase di non accettazione. Dagli occhi mi arrivavano pugni, dal cuore lamenti, e dal cervello un interrogativo che mi terrorizzava (sento ancora lo spavento che la domanda mi provocava): «Che senso ha, vivere così? Ha senso, quella vita?».

Nel primo paio di giorni, Marta mi mandava al tappeto con il gancio del suo riso. Rideva, rideva un sacco quella ragazza. Non perché fosse stupida, ma perché era contenta di essere lì in quella
vacanza, con altre persone. Ad ogni incontro di sguardi, Marta ti sorrideva, sorrideva a tutti, e quell’ampio esultante storto regalo di sorriso ti entrava, ti entrava potente dagli occhi, andava al cuore e al cervello.
E io ne ero sballottolato e terrificato. Mi chiedevo che razza di persona fossi, a pormi quegli interrogativi. Ma non riuscivo a evitarli, e non riuscivo a rispondere ai sorrisi di Marta.

Intanto mi prendevo cura di Antonio, e tutto il contesto si prendeva cura di me. Quando la settimana di lavoro stava per concludersi, non ero più terrificato: dagli occhi i pugni non mi entravano più, i lamenti del cuore s’erano affievoliti, e il cervello – ma solo perché emozioni,
apprendimenti e dubbi s’erano presi cura di lui – non mi poneva più domande.

Ora mi offriva risposte: «Certo che ha senso quella vita, scimunito! La vita di queste persone ha senso perché esse vogliono vivere: ridono, sono contente di stare insieme agli altri, e anzi, sono molto più contente loro per cose a cui tu e la maggioranza date invece un valore scontato, come un bagno in piscina.
Quando i volti di queste persone sono soddisfatti, sereni, felici per lo stare insieme, lì c’è il senso della vita. Della loro e di tutti quanti».
A quel punto, i sorrisi di Marta mi entravano negli occhi come carezze profonde. E finalmente ridevo anch’io.

Così come vennero banditi (almeno nelle leggi) la schiavitù, il lavoro minorile, e in Italia i manicomi e le classi differenziali (prepariamoci a lottare perché non tornino), così come nel mondo in varie epoche vennero abbandonate nefandezze che prima erano la norma comune e poi furono considerate mostruosità (almeno nei principi), verrà un giorno in cui sarà bandita la parola «disabilità».
Succederà quando – non grazie all’obbligo di un Servizio, ma all’educazione pluriennale a scuola e fuori da essa – gli esseri umani avranno compreso che non v’è persona al mondo senza una qualche forma di disabilità. Negli occhi, nel cuore, nel cervello, nelle gambe, nelle mani, nei pensieri, ovunque sia.  E quel giorno verrà sancito che la più grave forma di disabilità è l’indifferenza dell’animo quotidiano che innalza muri e guerre tra le persone, e tra l’umanità e la madre Terra.

Daniele Ferro

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