Attualità

La scuola deve dire “no” alla guerra

Non è un bel segnale quando le forze dell’ordine intervengono con violenza spropositata e fuor di luogo per reprimere cittadini che protestano, invece di proteggerli e tutelarne la sicurezza. Quando poi questi cittadini sono ragazzi, in parte minorenni, inermi, che procedono con le mani alzate, la condanna della violenza della Polizia non può che essere netta. Se inoltre, come è successo a Pisa e a Firenze il 23 febbraio, i manifestanti chiedono la fine del massacro del popolo palestinese e sono in piazza per le ragioni della pace e contro la guerra, la condanna di chi ha ordinato ai poliziotti di prendere a manganellate il maggior numero possibile di persone dovrebbe essere unanime.

I poliziotti non si sono mossi il 23 febbraio, a Pisa, perché spinti dalla loro rabbia ma hanno eseguito gli ordini, che erano quelli di evitare che i ragazzi sfilassero in Piazza Cavalieri. Ma cosa mai sarebbe successo se il corteo fosse arrivato in quel luogo? Credo proprio nulla – e, in ogni caso, spesso i cortei deviano dal percorso prefissato, dopo una trattativa tra Polizia e rappresentanti dei manifestanti, soprattutto se la deviazione non comporta, come in questo caso, nessun problema di ordine pubblico. Ma le direttive devono essere state precise: così i ragazzi sono stati imbottigliati, senza possibilità di allontanarsi e, di seguito, manganellati. In ogni caso, la sera del 23 a Pisa erano in cinquemila a protestare contro l’aggressione che avevano subito i loro compagni e oggi, il 24 febbraio, a Milano, sono in diecimila, quindicimila, forse più a chiedere il cessate il fuoco su Gaza.

Tira una brutta aria di reazione in Italia. A scuola i segnali di questo “nuovo corso” sono chiari: le sospensioni “esemplari” che sono state inflitte agli studenti del “Tasso” di Roma e del “Barozzi” di Modena punivano chi aveva avuto l’ardire di manifestare il proprio parere, di dissentire, di protestare.

Il Ministro Valditara intanto invoca, come rimedio ad un disagio che circola nelle nostre aule per ragioni che qui non stiamo ad indagare ma che certo sono complesse, il ritorno alle note, al voto di condotta sanzionatorio, alle sospensioni da scontare con lavori socialmente utili. E quel famoso “spirito critico” di cui si parla tanto, anche da parte ministeriale, dovrebbe quindi portare a dir sempre di sì all’esistente? O piuttosto non dovrebbe avere come conseguenza tanti “no” a tutte le storture che caratterizzano il nostro mondo, che passa per essere civilizzato ma che poi giustifica, di fatto, il massacro di più di trentamila palestinesi innocenti con la risibile e tragica giustificazione che Israele ha diritto ad esistere?

Esaminiamo le ragioni della protesta odierna: si chiede di porre fine al massacro che dal 7 di ottobre 2023 vede come oggetto la popolazione palestinese. Oh, scusate: dovevo premettere che il 7 ottobre Hamas aveva colpito Israele con un attacco che aveva causato circa 1.400 vittime tra civili e militari e portato alla cattura di 240 ostaggi. Ma, scusate ancora, avevo dimenticato di specificare come si vivesse in Palestina prima del 7 ottobre 2023: “Dagli anni novanta la popolazione palestinese non era più in grado di muoversi liberamente. Dal 2006 l’introduzione di un blocco israeliano contro Hamas ha peggiorato la situazione. Le conseguenze economiche sono state catastrofiche: disoccupazione, dipendenza dagli aiuti internazionali, difficoltà a ottenere cure mediche e infrastrutture fondamentali regolarmente distrutte dalle guerre”. Insomma, in Palestina si dovevano sopportare angherie quotidiane e da molto tempo.

Persino Giulio Andreotti aveva avuto modo di affermare nel 2006: «Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista». L’orrore di 30.000 vittime civili (chissà quante saranno davvero) supera l’orrore dell’attacco di Hamas, anche se qualcuno è convinto che non possiamo parlare delle vittime palestinesi senza ricordare il diritto di Israele ad esistere e difendersi. Anche quando difendersi vuol dire far morire per fame, sete, mancanza di cure mediche quei civili palestinesi che non vengono uccisi dalle bombe e che magari nemmeno si identificano con Hamas?

No, così non va. La mia solidarietà, qui ed ora, visto che siamo partiti dalla scuola, va a tutti i docenti che il 23 febbraio hanno accolto l’appello delle pochissime formazioni del sindacalismo di base che si sono esposte per lo sciopero a difesa della Palestina, a tutti gli studenti che si stanno muovendo contro le guerre, a tutti coloro che sentono come un’offesa alla propria intelligenza e al proprio sentimento l’unanimismo pro-israeliano dei nostri mezzi di comunicazione di massa e infine, con vera vicinanza,  a quegli israeliani che condannano le scelte dissennate di Netanyahu.

Soltanto negli Stati dittatoriali la scuola è a favore della guerra: “libro e moschetto” è un ossimoro che non vogliamo più sentire. Eppure oggi, nell’apparente tempo di pace, una parte della scuola italiana prepara alla guerra. Ce lo dimostra il lavoro puntuale che, da più parti viene svolto, un lavoro documentato di rilevazione di indebite ingerenze militariste nelle nostre scuole. In particolare, l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle Università svolge un importante ruolo di denuncia.

Una sola parola d’ordine ci deve accomunare: No alla guerra. no alla distruzione di vite e di cose, no a far vivere nel terrore intere popolazioni, no allo scandalo di bambini costretti a convivere, ogni minuto, con la morte possibile.  

Sarà pur vero che “guerra è sempre” ma è altrettanto vero che la capacità di arrivare alla tregua e di renderla il più stabile e duratura possibile, nel rispetto di tutti, è l’unico cammino verso un maggior grado di civiltà.         

Per noi, in Italia, è necessaria la massima all’erta: l’abbiamo detto prima, tira un forte vento reazionario, che per ora si indirizza sulle proteste studentesche ma che non esiterebbe a reprimere con maggior durezza ogni dissenso. Anche per questo motivo, oltre che per protestare contro guerra, violenza, discriminazione sociale, le nostre piazze debbono essere piene: facciamo comprendere a chi ci governa con l’uso della propaganda quando non addirittura con la menzogna che l’era della servitù volontaria sta per finire e il popolo ha capito che un unico filo accomuna la guerra sociale e la drammaticità senza rimedio della guerra vera.

Giovanna Lo Presti

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