Il “Piano Scuola 4.0” previsto dal PNRR — e adottato con decreto del ministro dell’istruzione n. 161 del 14 giugno 2022 — è davvero la pianificazione di un reale miglioramento del sistema scolastico italiano?
Considerando gli annosi problemi della Scuola nostrana (aggravati dalle tante riforme e controriforme degli ultimi 30 anni), esso appare lontano dalla realtà concreta: come un pamphlet ideologico, volto al definitivo sdoganamento della fede cieca ed assoluta nella tecnologia telematica quale unica panacea di tutti i mali della società italiana (a partire dalla Scuola). Pagine e pagine di istruzioni operative, di guide alla presentazione dei progetti sulla piattaforma, di indicazioni per generare il “CUP” (“Codice Unico di Progetto”). Un’attenzione esclusiva (e ossessiva) per “scuole innovative, cablaggio, nuovi ambienti di apprendimento e laboratori”, “trasformazione delle aule in ambienti innovativi di apprendimento”, “realizzazione di laboratori per le professioni digitali del futuro”. Il tutto con dettagliati resoconti delle spese previste (per una Scuola italiana fatta — tra l’altro — di edifici quasi tutti non a norma di sicurezza).
Siamo dunque di fronte ad un pacchetto di soluzioni preconfezionate — oltreoceano? — sulla base di pedagogismi privi in realtà di riflessione pedagogica, in cui gli strumenti diventano fine assoluto di azioni didattiche non fondate su riferimenti antropologici, filosofici, etici? Conta solo l’apprendere, in modo semplice, efficace, veloce? Non ci si pone più il problema del “che cosa” apprendere e con quali finalità (quasi che questo dilemma fosse stantio, superato, “inutile”)?
D’altronde, se è vero che «il mezzo è il messaggio» — secondo la tesi del sociologo canadese Herbert Marshall McLuhan (1911-1980) — qualsiasi mezzo usiamo per comunicare, trasmette esso stesso un messaggio. Ognuno dei “media”, pertanto, va classificato e studiato secondo i criteri in base ai quali struttura la comunicazione: e questa struttura comunicativa dei “media” fa sì che nessuno di essi sia neutrale, giacché tutti modificano i pensieri e i comportamenti degli utenti, mutandone nel profondo la forma mentis.
Lo sanno bene i docenti di oggi, che incontrano enormi difficoltà a comunicare efficacemente mediante il linguaggio verbale (basato su sequenzialità diacronica, astrazione, simbolizzazione, ragionamento logico) con adolescenti ammaliati da schermi di dispositivi elettronici fin dai primi mesi di vita.
Controcanto a tutto ciò, le recenti raccomandazioni del ministro Valditara (in una “lettera ai genitori” del 19 dicembre scorso) a non iscrivere i figli ai licei (privi secondo lui di sbocchi occupazionali), ma agli istituti tecnici e professionali, perché forieri di lavoro immediato come “fabbri ferrai, artigiani e operai specializzati del tessile e dell’abbigliamento, costruttori di utensìli e assimilati, fonditori, saldatori, lattonieri, calderai, montatori carpenteria metallica”.
Eppure il ministro (dell’istruzione pubblica, non del reperimento di operai per l’industria) sa che i diplomati provenienti dai licei — specie classici — non cercano lavori di questo tipo (e per questo non li trovano), ma si iscrivono all’università, per conseguire lauree che aprano loro la strada a professioni più gratificanti e remunerative. Sa anche che i mestieri da lui nominati son sottopagati e non motivanti in Italia, e poco praticati per questo; non ignora certo, infine, che basterebbe tutelarli e pagarli meglio per trovare manodopera disposta a svolgerli.
Il neoliberismo reale, percependosi come vincitore assoluto della Storia, vuol plasmare la società italiana a propria immagine e somiglianza, diminuendo gli spazi che la Scuola ha sempre destinato alla formazione umanistica, e dunque all’educazione linguistica; la quale non può prescindere dallo studio delle letterature, perché è nella lingua e nella letteratura che le capacità di astrazione simbolica della nostra specie si sono sempre sviluppate (e sempre si svilupperanno), conferendole la capacità di immaginare — e dunque creare — nuove possibili realtà.
Scrive Anna Angelucci nel suo ottimo libro “Le ‘due educazioni’: insegnare lingua e letteratura scuola”: «Michele Cometa, nella ricchissima ricognizione condotta nel suo “Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria”, individua tracce significative di una capacità narrativa nell’Homo sapiens osservando i manufatti artistici e le pitture rupestri del Paleolitico Superiore (periodo che si snoda tra i 40.000 e i 10.000 anni fa), a riprova di “presupposti biologici della narrazione” testimoniati addirittura dai reperti di età ancora antecedenti: infatti, suggerisce lo studioso, “ci si dovrà addirittura rivolgere alle ‘cose’, dagli utensili litici alle raffinate pitture di Lascaux o Chauvet, per cogliere le prime tracce del comportamento narrativo dell’Homo sapiens”».
Proprio così. I sapiens hanno sempre fatto della propria capacità artistica e narrativa lo strumento per modificare il reale. Perciò nessun tentativo di togliere alla nostra specie la capacità di immaginare, di raccontare, di produrre bellezza e goderne (a vantaggio di un fantomatico “utile” illusorio e transitorio), è mai riuscito. E, soprattutto, non ha mai giovato alla collettività.
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