Alla deputata Laura Boldrini, ex presidente della Camera, in occasione della diretta della Tecnica della Scuola Live del 6 dicembre abbiamo chiesto un parere sulla questione della lingua inclusiva.
La scuola è troppo rigida o conservatrice per recepire le istanze di chi chiede di riconoscersi in un pronome di genere diverso dai comuni pronomi binari uomo/donna?
Un tema che si aggancia al recente dibattito sull’uso dello schwa nelle comunicazioni scritte scuola, nell’ambito del quale anche i lettori della Tecnica della Scuola si sono espressi attraverso un sondaggio.
“Generalizzare è molto difficile – risponde alla nostra domanda la deputata Laura Boldrini – cioè non si può dire la scuola in generale, perché molto dipende anche da chi insegna direttamente ai ragazzi e alle ragazze. Ci sono delle figure che sono molto evolute, molto ben disposte a parlare con i giovani dei cambiamenti sociali; e altre che invece considerano questo fuori dal curriculo e dunque irrilevante”.
“E allora dobbiamo capire – aggiunge – che non tutti praticano l’insegnamento allo stesso modo”.
E sullo schwa, in particolare, afferma: “Io non ho neanche le qualifiche per dire la mia dal punto di vista strettamente linguistico, è una materia che comunque ci pone degli interrogativi”. Una posizione che ricalca, peraltro, quanto dichiarato anche dall’artista Zerocalcare, che di recente ha chiesto che sul tema dello schwa si apra una riflessione, adeguato o non adeguato che sia lo strumento schwa.
Laura Boldrini affronta il tema con la stessa cautela: “Se ne sta parlando in Italia da poco tempo, quindi siamo ancora tutti abbastanza in una fase di rodaggio su questa terminologia nuova, perché in Italia questo argomento non era mai stato all’ordine del giorno fino a poco tempo fa, forse fino a qualche anno fa, mentre in altri Paesi questo dibattito era già presente da prima”.
“Dopodiché, noi abbiamo anche una lingua appunto che declina, una lingua neolatina. L’inglese non ha la nostra struttura linguistica e quindi è anche più semplice. Non a caso molte definizioni noi le prendiamo in prestito dall’inglese”. E parla di empowerment: “Certamente ce ne sono molti altri, di termini, che stanno a significare lo stesso fenomeno, ma l’inglese alle volte semplifica quanto da noi è più complicato”.
E sempre sul tema della lingua inclusiva conclude: “Io penso che noi dovremmo prendere la questione della lingua inclusiva come una vera sfida, cioè la società ci pone di fronte a questa sfida, di fronte a una fluidità” di cui prima non avevamo contezza.
“Quindi – suggerisce – continuiamo a ragionare su questo e vediamo a cosa il nostro linguaggio ci può far giungere, nel modo più appropriato, per cui le persone si sentano non calpestate nella loro identità”.
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