La crisi del rapporto fiduciario tra le rappresentanze sindacali ed associative della scuola e il Governo potrebbe essere rappresentata in questi giorni caldi da una videata di Snake, il famoso gioco elettronico. Il Governo fa le veci del serpentello colorato, ingoia gli ostacoli e si prepara a tagliare il traguardo finale, in attesa di uno step successivo in cui ingoierà altri ostacoli e si farà più lungo e forte.
Non si comprende il motivo di questo non volersi voltare indietro a guardare la massa di insegnanti, studenti e famiglie che insieme ai sindacati martedì scorso ha detto no alla riforma, un no secco, che non può generare equivoci. Che la scuola non riesca a comunicare in maniera efficace con il paese e con i media è storia vecchia. I prof sono prevalentemente bravi a gestire relazioni con gli alunni, un po’ meno con i genitori, rispetto ai quali scatta talvolta il meccanismo della competizione educativa; con i giornali e la tv, a meno che non si tratti di manifestazioni sulla legalità, esecuzioni musicali e episodi di cronaca da bullismo, risultano incapaci di non “annoiare”, per involontaria colpa.
Raccontare l’apparato della scuola, una macchina complessa dal punto di vista burocratico e gestionale è per un giornalista un lavoro che richiede tempo e meticolosità, una capacità di ragionamento e di approfondimento sproporzionata rispetto alla vita di un articolo o di un servizio, e si corre sempre il rischio di non essere letti dalla maggioranza dei lettori.
La scuola in generale non fa notizia e uno sciopero con centinaia di migliaia di docenti nelle piazze italiane fa poca notizia, anche in un momento in cui il Governo non gode di largo consenso e fa votare una legge elettorale che riduce la rappresentatività a favore della governabilità del Paese, sottoponendo il Parlamento alla fiducia.
Dall’impatto dello sciopero ci si aspettava una pletora di articoli, reportage e commenti che avrebbero potuto modificare la qualità della conoscenza del DdL 2994 che martedì 12 maggio approderà alla Camera per essere presumibilmente approvato il 19 maggio.
Mentre si sfilava in corteo si pensava: “Domani parleranno di noi, domani cade il Governo, domani faranno un passo indietro”. Ci si aspettavano quanto meno approfondimenti puntuali, un maggiore coinvolgimento di insegnanti nei talk, un orientamento nuovo e sociale per informare sulla scuola, il tentativo di capire come funziona adesso e che cosa cambia con il nuovo DdL. Approfondimento e informazione, meno tracotanza dei Ministri e meno pregiudizi da parte di tutti (anche dei giornalisti che per deontologia dovrebbero essere attrezzati a combattere i luoghi comuni), un po’ di sano cinismo e di sospetto verso un provvedimento legislativo boicottato da tutta una categoria lavorativa, che non lo vuole.
Non sempre tutti i docenti sono adeguati ai loro compiti, con senso di responsabilità però ogni giorno incontrano milioni di bambini e adolescenti; questo non è un fattore che appartiene a tutte le categorie lavorative, anche volendo valutarlo in termini utilitaristici e di consenso elettorale. Il DdL “Buona scuola” viene licenziato in queste ore dalla Commissione Istruzione senza grandi modifiche, come se il 5 maggio non fosse accaduto nulla. E’ una brutta storia, contro la scuola di ogni giorno.
Il 12 maggio si riscenderà in piazza, sacrificando in termini retributivi un’altra giornata lavorativa. Ci sono i poteri assoluti del dirigente scolastico che sono diventati il nuovo paradigma dello scontro, la dicotomia del momento, amico-nemico, ma occorrerà spiegare che ci sono ancora 8 deleghe in bianco che vengono lasciate al governo, che potrà intervenire sul testo unico in qualunque momento e secondo le esigenze finanziarie.
La stampa potrebbe raccontare la pratica scolastica ideale, la funzione intellettuale che svolge ogni docente ogni giorno. Alcuni lo fanno, anche bene, ma sono pochi. Dovrebbe essere un po’ più attenta ai temi della legalità, della democrazia, della salute, della disabilità e dell’inclusione, della relazione simbolica all’interno della società che ogni giorno si alimenta della scuola e dei suoi spazi vitali. Si chiama giornalismo sociale ed ancora è considerato purtroppo da sfigati.
Le cose con cui ha a che fare ogni docente ogni giorno non hanno mai un valore denotativo, spesso solo simbolico. Per fare un esempio, un docente avrebbe più di una remora a programmare la visione del film “Diaz” di Daniele Vicari con una prima o una seconda superiore (film difficile per un educatore), a fare un certo tipo di lezione sulla sessualità con gli adolescenti di una terza media (in piena tempesta ormonale); oppure a discutere di un collega con gli alunni, in termini di pratica didattica che funziona o non funziona. Oppure, ancora, un docente non dice ‘tutto’ al genitore, così come un alunno o un genitore non dicono ‘tutto’ all’insegnante, sulla base di quella relazione che si chiama ‘complicità pedagogica’ e si costruisce solo a scuola come un filo sottile, ogni giorno con l’intero gruppo, a colpi di errori e di aggiustamenti, senza personalizzare i processi educativi.
Tutto questo non può finire nel curriculum, dentro gli albi regionali e le chiamate dirette dei dirigenti, non è oggetto valutabile, se non all’interno di una collegialità quotidiana, fatta di tante funzioni, di giornate fredde, di momenti straordinari, di fasi lente, di decisioni faticose. Per questo motivo per gli insegnanti la collegialità è un valore fondante, che va riformato magari con risorse per l’aggiornamento e la continuità, ma difeso ad oltranza.
La scuola è un contenitore sociale e rispecchia anche la parte sana e marginale del degrado del territorio. Spesso in quartieri di città difficili come Palermo, Napoli, Catania, Bari, le scuole sono avamposto insieme alle caserme dei carabinieri, gli oratori, le associazioni, i gruppi di mamme armate di buona volontà.
Vogliamo davvero pensare di risolvere le diseguaglianze sociali della periferia con il 5 per mille, considerando questa risorsa sostituiva e non aggiuntiva? Il Governo pensa davvero che gli insegnanti non siano in grado di quantificare il degrado dei servizi per l’infanzia e gli adolescenti nelle città del Sud, l’inoccupazione e la disoccupazione, la dispersione scolastica e il disagio urbano.
Le scuole sono patrimonio di conoscenza del Paese e dei disagi, sono a contatto ogni giorno con la recessione spicciola e materiale. Per questo motivo ci si aspetta dalla politica una maggiore considerazione, simbolica e fattiva, perché siamo circuito virtuoso e siamo il degrado meraviglioso del nostro paese, con i test invalsi di matematica che vanno male perché vengono pensati dai francesi e dai tedeschi. Dai giornalisti e dai commentatori ci si attendeva una maggiore attenzione, di entrare “una volta” nel mondo della scuola, quando non ci sono occupazioni, manifestazioni sulla legalità, o quando un ragazzo non si suicida. Delusione in duplice copia.
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