È adeguata la formazione di base degli insegnanti italiani? Lo è quella in itinere?
Come ogni anno, all’inizio dell’anno scolastico si moltiplicano gli articoli di stampa contenenti giudizi più o meno obiettivi sulla qualità della Scuola e dei docenti italiani. Quando si esamina un problema, però, bisogna anche ragionare su cosa sia stato fatto per risolverlo. Se il problema sono la Scuola e la sua efficacia, occorre chiedersi quale sia stata negli ultimi tre decenni la politica scolastica del Paese, quale l’attenzione dell’opinione pubblica, quale l’interesse dei cittadini per la soluzione del problema stesso.
Uno sconsolato grido di dolore
Ha in parte ragione Alex Corlazzoli, maestro e giornalista che, su Il Fatto Quotidiano del 12 settembre, grida «la scuola italiana è morta», attribuendo il fattaccio anche a quei docenti e dirigenti che non si sono mai opposti alla politica scolastica dell’ultimo trentennio: quel lungo periodo che ha burocratizzato, aziendalizzato e spento l’istituzione che dovrebbe creare cittadini vivi, liberi e felici di esistere e di conoscere. Non si può negare, infatti (come farebbe chi è davvero “corporativo”), che i docenti, pur preparati nelle singole discipline nelle quali si sono laureati e abilitati, in Italia sono spesso meno pronti dal punto di vista psicologico, pedagogico, didattico, relazionale (come spiegato dalla psicologa Daniela Lucangeli al Corriere della Sera). Non per loro colpa, ma perché il problema non è stato mai risolto col dedicare all’insegnamento un percorso universitario preciso e definito.
Il “Bel Paese” ha mai costruito una formazione seria per chi insegna?
Non servono concorsi annuali, non servono prove approssimative e fantasiose. Tanto meno è utile individuare “docenti esperti” tra chi già insegna da decenni. Urgerebbe semmai l’attenzione del legislatore per la preparazione dei futuri docenti e per la loro selezione (oltre che per il rimedio ai guasti inferti alla Scuola da 30 anni di tagli e ristrutturazioni neoliberistiche). Urgerebbe l’istituzione di corsi di laurea quadriennali (meglio ancora quinquennali) di qualità tale da abilitare immediatamente all’insegnamento chi li portasse a termine. Lauree abilitanti, dunque, che contenessero almeno un biennio finale (opzionale per chi volesse insegnare) con indirizzo didattico e metodologico.
Tale biennio dovrebbe prevedere esami obbligatori di psicologia (in particolare dell’età evolutiva, utile per i docenti d’ogni ordine e grado). Dovrebbe esser previsto poi un anno di tirocinio pratico, con remunerazione dignitosa per le scuole e per i docenti che si prestassero a renderlo possibile ai tirocinanti.
I laureandi che volessero poter insegnare dovrebbero scrivere una tesi concernente la didattica e la metodologia. La laurea — ribadiamo — direttamente abilitante, dovrebbe permettere l’iscrizione immediata a graduatorie provinciali, finalizzate all’assunzione. I docenti, infine, dovrebbero esser remunerati come docenti, e non come netturbini.
Di tutto ciò, però, nell’Italia di oggi, nemmeno l’ombra.
Basta col precariato
Nelle more della presa collettiva di coscienza circa la necessità di un piano del genere, sarebbe intanto almeno opportuno assumere le migliaia di precari che hanno già i titoli per insegnare in base alla legislazione attuale. Essi andrebbero seguiti con un tutoraggio sul campo, che fosse efficace ed autentico. Il TFA annuale (Tirocinio Formativo Attivo) degli anni 2011/2012 e 2014/2015 non rispose a tale necessità: pur essendo a pagamento (per migliaia di euro), pur essendo obbligatorio, era considerato da molti aspiranti docenti semplicemente assurdo, perché terminante con prove nozionistiche e casuali su tutto lo scibile umano. I PAS (Percorsi Abilitanti Speciali) degli anni tra il 2011 e il 2016 non portarono a risultati molto migliori. Eppure le riforme più recenti ricordano scenari analoghi.
Selezione forte per i docenti? Meglio se seria
Le prove non possono e non devono essere casuali. Il futuro docente andrebbe valutato già nel biennio metodologico-didattico del corso di laurea cui dovrebbe seguire l’anno di tirocinio pratico. L’assunzione nelle scuole, infine, dovrebbe prevedere un anno di prova con tutoraggio.
La società civile ha tutto il diritto di pretendere che, per diventare docente, l’aspirante tale sia sottoposto a una selezione forte. Più ancora che forte, però, questa selezione dovrebbe diventare seria: ossia non estemporanea, non legata a fortuna né a casualità. Meglio sarebbe, difatti, preparare e verificare le attitudini di chi vuole insegnare.
Un osservatorio sulla Scuola? Purché indipendente
Potrebbe tornare utile, per migliorare la situazione, la creazione di un osservatorio sulla Scuola, composto da docenti e cittadini? Certamente sì: a patto che tale osservatorio fosse indipendente da oligarchie, lobby, gerarchie ministeriali e politiche, gruppi di potere vari; un osservatorio caratterizzato dal rispetto dei ruoli e fra i ruoli (perché nessuno conosce meglio dei docenti la realtà della Scuola e dell’insegnamento); un luogo ove si riconosca che la libertà di apprendere è inscindibilmente legata alla libertà d’insegnamento.
Se ciò si verificasse, forse allora si ricomincerebbe a pensare e a comprendere che la democrazia si realizza in un Paese a cominciare dalla Scuola, come abbiamo già avuto modo di scrivere.
Empatia, capacità di relazione, conoscenza della pedagogia e capacità di metterne in pratica le teorie: sono queste le caratteristiche del buon docente, non (o non solo) la conoscenza della disciplina insegnata. E soprattutto, a creare il bravo docente non è l’ubbidienza acritica a nuove mode didattiche mal digerite e peggio comprese.