“Bisogna accrescere il patrimonio di conoscenze e competenze di cui dispone l’economia”, tra queste l’istruzione, che “appare altrettanto se non più importante dell’investimento in infrastrutture materiali”. Tuttavia, oggi nel nostro Paese l’investimento per la scuola e l’università rimane modesto. A dirlo è stato Ignazio Visco il governatore di Bankitalia, sabato 22 settembre, nel corso del 64esimo convegno di Studi Amministrativi della Corte dei Conti a Varenna.
Dopo avere lanciato l’allarme sulla sostenibilità del debito pubblico, richiamando l’attenzione sulla qualità della spesa (“il rapporto tra debito pubblico e prodotto potrebbe rapidamente portarsi su una traiettoria insostenibile” e bisogna calcolare che il Tesoro deve “collocare sul mercato circa 400 miliardi di debito pubblico”), Visco si è soffermato sul basso sforzo che si continua a produrre per formare le nuove generazioni.
“La spesa pubblica per istruzione – ha detto – è intorno al 4 per cento del Pil, molto più bassa che nella media dell’area dell’euro”.
A questo proposito, gli ultimi dati Eurostat ci dicono che a proposito degli investimenti per la formazione dei giovani siamo sotto la media europea (4,9%) di quasi un punto.
La spesa pubblica italiana corrisponde a poco meno della metà di quella sostenuta dalla Danimarca (7%), dalla Svezia (6,5%) e dal Belgio (6,4%).
Peggio dell’Italia fanno solo la Romania (3,1%) e l’Irlanda (3,7%).
Il governatore della banca d’Italia ha poi detto che il nostro Paese “risulta agli ultimi posti tra i Paesi sviluppati per le competenze della sua forza lavoro”, divario che “è pronunciato anche con riferimento all’attività di ricerca e sviluppo”.
Parlando del “rapido cambiamento tecnologico”, il governatore ha aggiunto che occorre fare fronte “promuovendo l’accumulazione di capitale umano e il suo miglioramento qualitativo”.
Più in generale, Visco ha esortato l’Italia ad “utilizzare al meglio le risorse: solo così – ha concluso – l’aumento della spesa può essere coerente con la sostenibilità del debito”.
A dare ragione indirettamente a Visco è stato l’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro, che nelle stesse ore ha messo in evidenza, fra l’altro, il fenomeno della cosiddetta ‘sovra-istruzione’: quasi un laureato trentenne su 4 (23,6%) svolge un’attività che non richiede la laurea.
Nel 2017, infatti, degli oltre 1,7 milioni di trentenni che la possiedono, il 19,5% (344.000 persone) è risultato privo di occupazione, mentre un ulteriore 19% (circa 336.000) ha dovuto accontentarsi di operare in posizioni professionali che non richiedono laurea.
Eppure, quando si firma un contratto da dipendente potendo vantare un titolo di studio elevato la ‘concorrenza’ viene sbaragliata, poiché “la retribuzione mensile media è pari a 1.632 euro, ovvero il 30% in più di un occupato con la licenza media (1.139) e del 20% di un diplomato (1.299)”.
Inoltre, “nel 2017, il tasso di occupazione dei trentenni laureati (81,3%) è stato superiore di 8 punti percentuali, rispetto ai giovani diplomati di pari età, e arriva a 24 punti percentuali”, al confronto con i coetanei con sola licenza media”.
Insomma, il massimo titolo di studio aiuta ad apre le porte al lavoro. Peccato che ne siano in possesso meno del 20% degli italiani (la metà della media europea). E che poi il lavoro non sia in linea con gli studi svolti.
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