Lo sappiamo da sempre e lo continuiamo a ripetere da anni: in Italia i genitori non sono liberi di esercitare il loro diritto di scelta educativa nei confronti dei figli, nonostante un così importante diritto sia garantito dalla Costituzione e riaffermato dalla legge 62/00, che sancisce a chiare lettere che il sistema pubblico dell’Istruzione è costituito dalle scuole pubbliche statali e dalle scuole pubbliche paritarie.
A dire il vero, anche l’Europa, negli ultimi trent’anni, in più occasioni, ha richiamato l’Italia a cambiare rotta e ad adeguarsi agli altri Paesi europei. Nell’attuale situazione, infatti, può esercitare il proprio diritto di scelta educativa solo il genitore che si trova in condizioni economiche tali da consentirgli di pagare la retta richiesta quale contributo di gestione; chi non può pagare, pertanto, non può neanche scegliere. Ovviamente le scuole pubbliche paritarie, quelle degne di essere così chiamate, cercano in tutti i modi possibili sia di tenere le rette ad una cifra contenuta sia di intervenire con borse di studio e agevolazioni, per consentire anche ai meno facoltosi l’accesso a scuola.
Ovviamente con sforzi enormi e limitati solo dalla matematica necessità di non compromettere la solidità dell’Ente gestore e, conseguentemente, la continuità dell’opera. Con il dovuto rispetto e la massima comprensione del problema dei genitori italiani, l’onestà intellettuale non può fare a meno di segnalare che c’è anche un’altra categoria che è obiettivamente discriminata, ossia quella dei docenti. E’ vero che la scuola è animata dall’interazione delle tre componenti che ne fanno parte, genitori, allievi e docenti, però questi ultimi sono quelli che, nel bene e nel male, fanno la scuola, nel senso che portano avanti un progetto educativo e, di conseguenza, culturale, ispirato spesso a secolari carismi di fondazione, la cui perdita porterebbe ad un impoverimento di civiltà. Nell’attuale sistema, a parità di titoli e di risultati educativi, il docente della scuola pubblica statale riceve infatti uno stipendio superiore rispetto al collega della scuola pubblica paritaria.
E’ una situazione onesta questa? Ovviamente si potrebbe obiettare che il docente della scuola paritaria può benissimo rassegnare le dimissioni quando è chiamato in ruolo nello Stato e percepire un salario maggiore. E’ vero, nella maggioranza dei casi le cose vanno a finire così. Però, viene da chiedersi, è ontologicamente giusta questa situazione? E’ giusto che un docente che lavora con passione da anni in una scuola paritaria, dichiarata “pubblica” per legge (62/2000), ne condivide il progetto educativo, partecipa con entusiasmo alle diverse iniziative, debba, a un certo punto – e nel 99% dei casi a malincuore – abbandonare tutto perché non può rinunciare a uno stipendio superiore? Non è questa la sede opportuna – lo abbiamo fatto in altre occasioni – ma non possiamo non accennare alle modalità di immissione in massa nello Stato con l’unico scopo (ideologico?) di svuotare le GAE, una modalità scellerata che ha scontentato i docenti, la maggioranza dei quali è finita in sala professori ad aspettare la malattia del collega o a pensare a fantomatici progetti di potenziamento dell’Offerta formativa, ma ha scontentato anche gli studenti che comunque continuano a subire frequenti cambi di docenti. In questa situazione gli unici ad essere stati contenti sono stati molti dirigenti scolastici delle scuole statali che hanno visto i loro Collegi Docenti animarsi grazie agli insegnanti che provenivano dalla scuola paritaria i quali, abituati a lavorare in un certo modo, hanno portato la loro positiva esperienza nella scuola statale.
Sempre per onestà intellettuale sono da citare anche quei docenti che, ricevuta la chiamata dallo Stato, hanno preferito e preferiscono rimanere dove sono, accettando i sacrifici economici, perché la prospettiva dello stipendio superiore non risulta affascinante a tal punto da dover rinunciare ad un ambiente di lavoro sereno e stimolante, ispirato a un progetto educativo condiviso tra i colleghi e percepito come proprio, dove i problemi vengono affrontati assieme, dove la mancanza di solide relazioni umane viene arginata da un lavoro di squadra, dove il ragazzo e la famiglia si trovano davanti persone compatte nelle valutazioni educative e che propongono loro prospettive altre ed elevate del vivere. In nome di tutto questo si può anche dire di no alla chiamata dello Stato.
Ma la domanda è sempre la stessa: è un sistema giusto e rispettoso dell’individuo? Lo Stato rispetta i suoi cittadini, siano essi genitori o docenti? Assolutamente no! Il sistema è discriminatorio e iniquo.
La causa di tutta questa iniquità è ciò che potrebbe essere definito un paradosso: lo Stato italiano ha voluto (e vuole?) avocare a sé un duplice ruolo, quello di erogatore di un servizio e quello di garante del servizio stesso. Una situazione tipica dei regimi che vogliono assumere integralmente l’educazione delle menti delle nuove generazioni. Sembra un’esagerazione ma le cose stanno così. Ed è significativo il fatto che nella Sanità si sia arrivati da decenni ad un sistema pubblico realmente integrato tra gestione statale e gestione privata; nella scuola no. La cura del corpo non preoccupa, quella della mente e dei cuori sì! Da anni viene portata avanti una battaglia di civiltà che vuole porre ordine in questo sistema non libero nell’ispirazione, non efficace nell’attuazione, non efficiente nei risultati e, ovviamente, non sostenibile nei costi.
Grazie alla lungimirante proposta di individuare il costo standard per alunno, alla battaglia culturale che ne è seguita e che ha portato all’istituzione presso il MIUR di un tavolo di lavoro per studiarne la fattibilità, si può sperare che anche in Italia la libertà educativa e di insegnamento potranno essere finalmente garantite, come nel resto d’Europa ad eccezione della Grecia, portando lo Stato a svolgere l’unico ruolo che gli è proprio, ossia quello di garante del servizio di istruzione e di formazione dei cittadini. In questo modo potrà avviarsi tra scuola pubblica statale e scuola pubblica paritaria una competizione virtuosa, a parità di risorse e di diritti, una competizione che, se bene condotta, non potrà che portare a raggiungere livelli di istruzione sempre più alti, portando l’Italia ai risultati degli altri Paesi occidentali. Del resto, una delle conquiste più importanti sulla strada dello sviluppo culturale e sociale dei popoli è stata quella di comprendere che il progresso di una nazione passa attraverso il suo sistema di istruzione dei giovani.
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