I lettori ci scrivono

La Scuola media secondo la Fondazione Agnelli: persone o cervelli?

Gentilissimi, abbiamo letto con molta attenzione il Rapporto scuola media 2021 della Fondazione Agnelli; la parte più singolare è quella che riguarda le modalità di apprendimento delle persone durante la pubertà e i metodi didattici da adottare. Il meccanismo purtroppo è noto: si presenta un rapporto della Fondazione Agnelli come autorevole e oggettivo; questo studio “dimostra” che grazie a nuove acquisizioni “delle neuroscienze” è assodato che fare lezione – meno che mai frontale, per carità – e voler insegnare qualcosa ai ragazzini delle scuole medie è inutile e controproducente (quando noi abbiamo frequentato le scuole medie e ci spiegavano le cose infatti non abbiamo imparato niente, anche se pensavamo di sì).

Sono indispensabili “nuove metodologie” – ovviamente eterodirette, con formatori, formazione obbligatoria (quella indicata qui con apodittica certezza dalla Fondazione Agnelli, ça va sans dire, senza un dibattito pubblico in cui si cerchi davvero di capire ciò di cui gli insegnanti hanno bisogno per poter aiutare i propri studenti a crescere) ecc. – che gli insegnanti però sono restii ad accettare prontamente, legati come sono a “conoscenze” che già hanno, che possono essere date per scontate e su cui secondo la Fondazione Agnelli sarebbe inutile insistere: come se la conoscenza fosse qualcosa di dato una volta per tutte e non una continua scoperta, attualizzazione e rielaborazione, in cui insegnanti e studenti sono coinvolti insieme; come se questo coinvolgimento comune attorno a delle conoscenze non rappresentasse esattamente il centro dell’attività didattica.


In realtà gli insegnanti non rifiutano affatto la formazione culturale, didattica, psico-pedagogica (sono persone che per definizione passano la vita a studiare e a condividere conoscenze): rifiutano invece la “formazione” inutile e controproducente che tanti vorrebbero imporre loro dall’esterno, spesso con grande presunzione e poca consapevolezza di ciò che davvero occorre alla scuola sul piano culturale, umano e pedagogico. È stata proprio la sottrazione di conoscenze, sulla condivisione delle quali si costruisce la fondamentale relazione tra insegnanti e studenti, a favore di “metodi” astratti, frettolosi e superficiali, scollegati dai contenuti e ridotti subito a burocrazia e certificazioni – corollario di tutta l’impostazione elefantiaca dell’ ‘autonomia’ – a mettere progressivamente in crisi l’efficacia educativa della scuola in generale e della scuola media in particolare. Ma questo forse la Fondazione Agnelli non lo sa, visto che propone una ricetta che va nella stessa direzione dei problemi che dovremmo risolvere e chiede anche di accelerare su questa strada.

La curatrice del rapporto, da quello che si legge, è laureata in Economia e commercio, studiosa di statistica ed esperta dei processi aziendali, che si è occupata e si occupa di “Attività di valutazione delle fondazioni di origine bancaria” “anche nel campo dell’istruzione” e che ha lavorato per l’IPRASE e l’INVALSI, oltre a far parte dello staff della Fondazione Agnelli. Nel redigere questo rapporto, forse senza avere conoscenze dirette di ciò che accade a scuola e senza avere conoscenze specifiche riguardanti l’età evolutiva, per poter vagliare criticamente e con cognizione di causa le proprie fonti (dispostissimi a fare ammenda, se sbagliamo), la curatrice (o chi per lei) si è ispirata a teorie di pedagogisti statunitensi, che a loro volta, a detta sua, hanno preso spunto da alcune scoperte delle neuroscienze.

L’impressione, ad essere sinceri, è che si voglia imporre una tesi astratta, rigida e ideologica sulla scuola e sulle persone in età puberale (riassumibile in “evitare le spiegazioni, evitare sempre e comunque la trasmissione di conoscenze, tutto quello che non è ‘innovazione’ non produce risultati”), funzionale a imporre una certa idea di istruzione (o forse di non istruzione); che si vadano poi a cercare pezze d’appoggio scientifiche a questa tesi dove se ne trovano, e che su questa base si faccia piazza pulita di ogni concreta esperienza culturale, pedagogica, relazionale che caratterizza la scuola. Come dire: se i fatti smentiscono la teoria, tanto peggio per i fatti. In questo contesto, sembra si banalizzi il passaggio – di incommensurabile complessità – da una sperimentazione neuroscientifica al trasferimento dei dati di questa sperimentazione a un ambito ad essa del tutto disomogeneo come quello pedagogico (è vero che lo stesso rapporto ammette che questo passaggio non può essere meccanico: poi però sembra darlo per scontato nelle conclusioni che ne trae). Bibliografia, per argomenti così complessi: tre titoli di area angloamericana, due italiani.

Leggiamo un unico, lungo brano del rapporto, tanto per avere un’idea di ciò di cui parliamo:

Una spiegazione possibile per questa relativa incapacità di coinvolgimento della
scuola media è che non sempre c’è coerenza, da un lato, tra ciò che sarebbe
necessario al cervello [sic] dell’adolescente e alla sua evoluzione cognitiva e, dall’altro, il tipico insegnamento offerto in questo segmento scolastico.

La ricerca neuroscientifica suggerisce che il cervello degli adolescenti ha ancora ampie aree di plasticità [bella scoperta, direbbe qualcuno]: da qui nasce la riflessione di pedagogisti ed esperti di istruzione americani [?] che hanno utilizzato ricerche sul campo per individuare strategie di insegnamento brain friendly [!], mettendo in guardia da quelle brain hostile [!].
Proprio nel periodo della crescita in cui il cervello [!!!] brama [il cervello brama?] sempre più stimoli dai pari, l’insegnamento nella nostra scuola media diventa più centrato sull’insegnante, con minori interazioni in piccoli gruppi e apprendimento cooperativo e collaborativo.


[…]. Le neuroscienze possono aiutare a cambiare l’insegnamento [!]: esistono metodi didattici che valorizzano l’evoluzione cognitiva ed emotiva del cervello [!] adolescente”
.

Ecco, a parte la presunzione di autorevolezza, la cosa più inquietante del documento della Fondazione Agnelli sta nel fatto che nei paragrafi, appunto, su cosa e come imparano i giovanissimi nell’età puberale non si parla più di persone ma di “cervelli” (“Una didattica per i cervelli adolescenti”, si intitola un paragrafo della ‘ricerca’ dedicato specificamente all’argomento, quello da cui abbiamo citato). Ora, si può affrontare un terreno complesso come quello dell’educazione sulla base soltanto delle “neuroscienze”, prescindendo da qualunque altra disciplina ed esperienza, come se si fosse su un terreno vergine e non avessimo invece alle spalle secoli di riflessione psico-pedagogica e culturale? Come si fa a pensare – se non da frettolosi neofiti – che nel campo dell’educazione esistano ‘fatti’ oggettivi e univoci e non teorie, esperienze e interpretazioni, come sempre quando si ha a che fare con degli esseri umani (e quando poi gli stessi scienziati sono ben consapevoli del carattere tutt’altro che univoco e sempre ipotetico e provvisorio di teorie che tentano di dare un senso a dei dati)?

Dove sono qui la psicologia e la pedagogia, con un essere umano ridotto a “cervello”, come se si fosse tornati a un inquietante positivismo meccanicistico di stampo ottocentesco e lombrosiano, incapace di cogliere (e non certo per colpa dei neuroscienziati, che fanno il loro lavoro) l’estrema complessità delle interazioni mente-cervello o natura-cultura ? Basta prendere in considerazione la teoria di Piaget, ad esempio, secondo la quale proprio negli anni della scuola media emerge la possibilità del pensiero astratto: che fine fa questa acquisizione della pedagogia, in questo rapporto che raccomanda “scientificamente” di guardarsi bene dallo “spiegare”, che prescrive di far imparare solo attraverso l’esperienza attiva, come se ci si trovasse ancora di fronte a dei bambini più piccoli? Vogliamo almeno parlarne?


Che fine fa poi l’esperienza quotidiana degli insegnanti (del tutto trascurata nel “rapporto” Agnelli, come se gli insegnanti potessero essere solo oggetti di osservazioni statistiche e non soggetti di elaborazione culturale e preziosi depositari di esperienza), che mostra quanto gli undicenni-quattrordicenni – all’interno della relazione educativa – abbiano bisogno di fare domande, di essere contenuti, rassicurati e indirizzati, e di quanto gli sia necessaria la presenza di adulti che sappiano dare loro delle spiegazioni? (anche “frontalmente”, cioè faccia a faccia, sì: si chiama parlare e interagire).

Insomma, sembra che qui si sciorini una serie di certezze apodittiche – “scientifiche” – del tutto astratte ed estranee alla concreta pratica educativa ma funzionali a giustificare pesanti interventi sulla scuola (in vista del suo smantellamento come scuola pubblica?), trascurando tutto ciò che si è pensato, sperimentato e vissuto da parte di chi nella scuola ci lavora, rifacendosi a una sola voce – quella della “neuroscienza” (ammesso che abbia una sola voce) – la cui validità in questo ambito è tale solo se non serve a giustificare un assurdo riduttivismo e se dialoga (come dialoga ad esempio con la psicoanalisi, in una delle frontiere più avanzate della conoscenza della mente, di cui qui non c’è traccia) con discipline meno eterogenee rispetto al campo dell’istruzione-educazione.


Ricordiamo che quando si è creduto di trasferire nelle scienze umane le “certezze inoppugnabili” delle scienze naturali (che poi inoppugnabili sono sempre e soltanto per i non scienziati, che vi pescano delle pezze d’appoggio per supportare visioni filosofiche e ideologiche della realtà, quando non direttamente interessi economici e giustificazioni delle necessità del potere), si sono prodotte catastrofi. Ecco, far passare l’idea che a scuola si fa didattica “per i cervelli” e non per gli esseri umani potrebbe essere l’inizio di una di queste catastrofi.

Gruppo La nostra scuola

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