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La scuola non deve tornare ad essere quella di prima: proposte per un vero cambiamento

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Una scuola a macchia di leopardo con punte di eccellenza e grandi aree caratterizzate da carenza di risorse e difficoltà di ogni tipo.

Storie di ordinario disastro

A titolo di esempio ecco una breve storia, vera, di una classe di scuola media in una città del nord Italia che, come tante, ha visto un continuo avvicendarsi di dirigenti reggenti e ha sofferto una carenza di risorse al limite della sopravvivenza.

Il primo anno viene vissuto in un edificio degli anni 70 in cui crollavano pezzi di controsoffittatura, malgrado vent’anni di segnalazioni e di richieste per la riparazione del tetto; in inverno temperature inaccettabili: 16 gradi nelle aule e 14 nei corridoi; lezioni svolte con il cappotto addosso e diverse persone che sviluppano patologie causate dal freddo.

La scuola non viene riparata, ma chiusa definitivamente, lasciando un quartiere popolare di periferia senza un importante presidio di legalità.

In seconda la classe si ritrova ospitata in una vecchia scuola con un numero di aule disponibili insufficienti a svolgere qualunque attività di laboratorio, creando inoltre disagio alle famiglie per lo spostamento.

In terza nasce un istituto comprensivo con un numero enorme di studenti e un collegio docenti da 170 persone: carenze di personale ATA che producono problemi di gestione della segreteria, di pulizia delle aule e di vigilanza nei corridoi; connessione internet praticamente assente, pochissimi dispositivi elettronici e niente fotocopie.

Il tutto condito da una presenza di circa il 30% di insegnanti precari che cambiano tutti gli anni. Quindi progettazione comune quasi assente ad inizio anno perché i consigli di classe sono in alcuni casi dimezzati.

No davvero, tornare ad una scuola come questa non è auspicabile!

Mariastella Gelmini dichiara che: “La scuola è la fucina di futuro della nostra società e mai come in questo momento il livello del dibattito pubblico su queste tematiche è apparso così drammaticamente inadeguato” ​Affermazioni che mi trovano assolutamente concorde. Risulta però irritante il fatto che a pronunciarle sia una persona che, quando è stata Ministro dell’Istruzione, ha prodotto danni che ancora oggi, a distanza di 11 anni, producono effetti devastanti: otto miliardi sottratti alla scuola, laboratori ridotti negli istituti professionali, riduzione del personale della scuola in termini di molte decine di migliaia di unità, edilizia scolastica a pezzi, interruzione per diversi anni della formazione degli insegnanti, compresa quella degli insegnanti di sostegno, violando così un diritto fondamentale degli allievi con disabilità.

In compenso aumentano i finanziamenti (incostituzionali) alle scuole private (con l’artificio della denominazione paritarie). I successori non hanno rimediato a questi danni e, in alcuni casi, come con la riforma Renzi, si è cercato di portare a termine l’opera spingendo sempre più per una scuola concepita come azienda, piuttosto che come servizio essenziale e fondamentale per l’effettiva realizzazione dei principi costituzionali.

Non possiamo ripartire da qui.

Per riaprire le scuole serve un cambiamento deciso, prima di tutto nel modo di considerare la scuola: non è una spesa da ridurre, non è un’azienda che va gestita per produrre profitti, non è qualcosa di cui chiunque può parlare sulla base di luoghi comuni, ma è una risorsa per il futuro economico, sociale e democratico del paese, che solo persone di studio e di esperienza possono aiutare a far diventare una comunità di apprendimento in grado di coinvolgere tutti gli studenti. E per fare questo non servono riforme epocali, utili più che altro a fini propagandistici, ma un lento e chiaro cammino verso reali miglioramenti, basati su: evidenze scientifiche, ascolto e partecipazione.

Per tornare a scuola con una didattica puramente trasmissiva, in epoca di pandemia, potremmo tranquillamente proseguire con la didattica a distanza in video o fare lezione tra barriere di plexiglass, ma forse è arrivato il momento di cambiare davvero, scegliendo un modo di fare scuola che non solo ci aiuti a ridurre il rischio di contagio, ma ci permetta anche di non abbandonare nessuno e di sviluppare potenzialità ed eccellenze di tutti.

Edifici ed insegnanti stabili sono il presupposto, risorse adeguate e formazione accurata degli insegnanti il primo passo.

Edilizia scolastica

Servono investimenti adeguati per nuove scuole concepite per attività laboratoriali e non solo per lezioni frontali, considerando classi di 20/22 alunni e per manutenzioni accurate e puntuali, nonché controllate dal punto di vista dell’onestà nella destinazione dei fondi.

Stabilità degli insegnanti

I sindacati si preoccupano, giustamente, di risolvere il problema del precariato, che è una violazione dei diritti dei lavoratori e degli studenti. Infatti un’istruzione di qualità non può esistere senza la possibilità di progettare a medio e lungo termine. Un insegnante che arriva a novembre e non sa dove sarà l’anno successivo non riesce ad avere una progettualità adeguata e deve preoccuparsi più della propria sopravvivenza che della qualità della sua formazione.

Un edificio inadeguato e pericoloso è un ostacolo costante allo sviluppo di una buona attività didattica, ma ancor di più lo è un insegnante che non può o non sa svolgere il proprio lavoro.

Quello che in questi anni si è salvato è dovuto proprio a quegli insegnanti che con la loro passione hanno tenuto in piedi una scuola al limite della sopravvivenza. Ma non abbiamo bisogno di eroi, non esistono eroi, ma solo persone semplici, che con tenacia e determinazione cercano di affrontare situazioni difficili, malgrado la quasi totale assenza di risorse.

Risorse

Come si può parlare di una scuola di qualità quando i tagli alle spese non solo hanno impedito a molte scuole di avere connessione Internet e dispositivi elettronici, ma addirittura di fare fotocopie, acquistare libri per la biblioteca, sussidi didattici per allievi con disabilità, banchi, sedie e lavagne. Difficile parlare di ambienti di apprendimento innovativi quando vivi in una scuola con armadi, banchi e sedie rotte da anni e mai sostituiti.

Formazione degli insegnanti

La formazione degli insegnanti è fondamentale. Tanto è vero che spesso insegnanti appassionati ed esperti contengono il disastro di scuole a pezzi e senza risorse. A questo punto però devo muovere qualche osservazione critica nei confronti dei sindacati, ma proprio perché considero indispensabile e di enorme importanza per la vita civile e democratica di un paese, il ruolo di queste organizzazioni, non risparmio critiche quando ne vedo le fragilità.

Penso che i sindacati debbano combattere la lotta contro il precariato nella scuola e in tutti gli altri settori lavorativi, per una società più equa e giusta, ma sempre per gli stessi valori debbano simultaneamente (né prima né dopo) battersi per una scuola di qualità e questo implica una formazione degli insegnanti di altissima qualità, verso la quale ogni insegnante deve sentirsi impegnato.

Insistere solo sulla realizzazione di concorsi straordinari ad ingresso facilitato va nella direzione diametralmente opposta a quella della formazione degli insegnanti di qualità. Penso che si debba considerare l’articolo di Galli della Loggia e di Lettera 150 non come un attacco ai diritti sindacali, ma come un pungolo alla riflessione nella direzione del miglioramento.

Chi fa funzionare la scuola con il proprio lavoro ha diritto ad una stabilità occupazionale, ma a patto che sia disposto a formarsi seriamente per dare un contributo importante. Questa formazione forse non la si acquisisce con i test nozionistici a crocette, né con corsi e concorsi affrettati, né tantomeno con 24 CFU.

Le insegnanti di scuola primaria e dell’infanzia laureate hanno alle spalle una formazione di cinque anni specificatamente rivolta all’insegnamento con importanti esperienze di tirocinio. Un insegnante di scuola secondaria come si prepara a quello che è uno dei mestieri più difficili?

Una vera formazione la si conquista con lo studio di materie dell’ambito psico-pedagogico, ma anche con un tirocinio ben organizzato e qualificato. Qualcuno dirà che chi ha anni di precariato alle spalle ha già acquisito l’esperienza necessaria. In alcuni casi è vero, in altri non lo è affatto. Mi è capitato più volte di vedere colleghe o colleghi disperati per la difficoltà nel gestire le classi. Quindi un buon tirocinio è anche una tutela per il benessere degli insegnanti, oltre che per quello degli studenti.

Da decenni si tenta di superare il principio per cui è sufficiente laurearsi per insegnare e che conoscere una materia non significa necessariamente saperla insegnare. Prima la SIS, poi il TFA, poi il FIT preceduto da 24 CFU, poi i soli 24 CFU. Molti ministri impongono la loro “riforma epocale”, ma spesso si agisce sulla base di principi informatori del tutto estranei alle evidenze scientifiche nell’ambito delle scienze dell’educazione.

Il risultato è una scuola che stenta a decollare verso la qualità e l’inclusione, malgrado esperienze d’eccellenza che, se ben considerate, andrebbero estese. Occorre un ritorno al TFA oppure un biennio di laurea magistrale con indirizzo specifico per l’insegnamento che comprenda un periodo di tirocinio

Occorre inoltre chiedere ai sindacati di pensare alla tutela della maggioranza del personale che si dedica al proprio lavoro con grande serietà, ma viene danneggiato, in termini di immagine e di sovraccarico di lavoro, da coloro che non solo non sono formati, ma tendono anche a non fare il proprio dovere e questo vale per gli insegnanti così come per il personale ATA. Chi non rispetta i propri impegni danneggia la qualità della scuola, creando lungaggini burocratiche negli uffici, riducendo la vigilanza e quindi la sicurezza nei corridoi, lasciando le aule sporche, conducendo lezioni inadeguate.

Prima di prendere la difesa di persone siffatte, i sindacati dovrebbero valutare bene la situazione e ricordarsi che costoro sfruttano il lavoro dei propri colleghi come il peggiore dei padroni e creano situazioni di rischio per gli allievi e per tutti gli altri lavoratori, facendo venire meno i presupposti di base di una scuola di qualità. In molti casi poi il sovraccarico di lavoro, dovuto a negligenze ma anche a carenze di personale, si risolve nel fatto che si scaricano sugli insegnanti compiti di pertinenza di collaboratori o della segreteria, sottraendo così il tempo alle attività di preparazione delle lezioni.

No, davvero, la scuola non può tornare ad essere questa.

È il momento di un rinascimento della scuola italiana che contribuisca al rinascimento del paese.

A settembre dobbiamo riaprire le scuole e si prospettano le soluzioni più disparate per mantenere la scuola come prima, ma occorre un cambiamento deciso verso un nuovo modo di fare scuola che non solo faciliti il ritorno in aula in tempi di pandemia, rendendo le scuole più sicure, ma, insieme, grazie ad una didattica innovativa, riesca a contrastare la dispersione scolastica che nel nostro paese raggiunge record poco invidiabili.

Dobbiamo​ pensare ad una didattica che vada oltre i muri delle aule e oltre i muri pedagogici dell’insegnamento esclusivamente trasmissivo. Dobbiamo finalmente pensare alla scuola come ad un luogo dove non ci si limiti a riempire le teste, ma soprattutto a formare teste ben fatte (Edgar Morin, 2000).

Come possiamo pensare ad una scuola diversa?

Le uscite didattiche,​ spesso esperienze poco correlate con il mitico programma, e vissute da alcuni come una perdita di tempo, dovrebbero entrare a far parte del lessico quotidiano dell’attività scolastica. Capita che gli allievi di una scuola media non abbiano mai messo piede in una biblioteca a pochi centinaia di metri dall’edificio della loro scuola o in un teatro, in un cinema, in un parco, in strutture sportive del territorio.

Non si potrà stare all’aria aperta tutti i giorni, ma non sarà nemmeno possibile, nei tre mesi che ci separano dall’inizio del nuovo anno scolastico, e forse mai, raddoppiare il numero delle aule scolastiche. Quindi utilizzare gli spazi all’aria aperta e i luoghi della cultura, dello sport e del volontariato del territorio, per realizzare una didattica laboratoriale e in service learning, non solo potrà contribuire ad alleggerire la presenza all’interno delle aule, ma anche a ripensare una didattica cha ha bisogno di cambiare per essere davvero inclusiva e migliorare i processi di apprendimento di tutti.

Per ottenere questo ovviamente le scuole devono utilizzare tutte le possibilità offerte dall’autonomia, per rendere rendere flessibili gli orari degli insegnanti. (senza aumentarli) condividendo le scelte.

Servono risorse, ma servono anche idee, formazione, cultura pedagogica, disponibilità a sperimentare e ad accettare le sfide, dialogo. Serve una scuola che punti alla qualità, non solo nell’aridità della compilazione di documenti per il miglioramento, realizzata come mero esercizio retorico, ma nella vita quotidiana di una didattica frutto di una riflessione comune e di una progettazione condivisa.

Proprio questi sono i requisiti fondamentali del cambiamento: la partecipazione e la condivisione; l’ottica della collegialità nata negli anni ‘70 non è qualcosa di vecchio, ma piuttosto una modalità relazionale e di lavoro che bisogna tornare ad applicare, ma applicare meglio di prima, perché senza una partecipazione diretta e un coinvolgimento degli insegnanti, dei genitori e degli studenti la scuola non potrà mai essere una scuola di alto livello per tutti, compreso quel 23,4% di NEET, frutto di una dispersione scolastica che si aggira intorno al 14%.

L’idea di un grande cambiamento spaventa tutti, in primo luogo gli insegnanti che lo devono mettere in atto, ma anche sotto questo punto di vista dovremmo forse imparare laddove si registrano i migliori risultati nelle rilevazioni internazionali: la scuola finlandese ormai  citata ovunque.​

Nel libro curato da Antonello Giannelli, che propone una “rivoluzione gentile” per la scuola (Rivoluzionare la scuola con gentilezza​, Guerini e Associati, Milano, 2019) si trova un capitolo (Marco Braghero, p. 99) dedicato alla scuola finlandese e se i nostri decisori politici leggessero attentamente alcuni passaggi avrebbero ben chiaro cosa fare e capirebbero che invece ciò che è stato fatto negli ultimi decenni nella scuola italiana non poteva che portarla al disastro. Solo la tenacia di tanti insegnanti precari e non precari ne ha sorretto in parte le sorti.

In questo capitolo emergono alcune considerazioni fondamentali relative alla scuola finlandese:

  • Ogni cambiamento coinvolge gli insegnanti,​ oltre a genitori e studenti, in un approccio dialogico, cercandone la partecipazione e considerando attentamente le loro opinioni, procedendo lentamente e a piccoli passi e partendo da evidenze scientifiche nel campo delle scienze dell’educazione. La scuola non può essere rinnovata con le riforme epocali calate sulla testa degli insegnanti.
  • Se una scuola diventa troppo grande la si divide affinché i dirigenti possano lavorare a stretto contatto con insegnanti e studenti. Da noi gli istituti comprensivi sono serviti sostanzialmente a ridurre le spese del personale, dai dirigenti al personale ATA, creando organizzazioni enormi in cui è spesso impossibile avere un colloquio con il dirigente, che spesso può dedicare poco tempo alla qualità della didattica ed è oberato da adempimenti burocratici.
  • Non si utilizzano test standardizzati e non ci si allena per affrontare i test OCSE PISA, dove però eccellono. In Italia si spendono decine di milioni di euro per i test Invalsi.
  • Si spende il 7,22% del PIL. In Italia il 3,5%. Tra i più bassi d’europa.​
  • Fino a quattordici anni non si danno voti e non si boccia. L’obiettivo​ è cambiare il paradigma “da quello del controllo e della paura verso quello della responsabilità e dell’intesa”. In Italia quando si parla di abolire i voti qualcuno propone di inserire lettere o aggettivi, il che non cambierebbe in nulla il sistema di valutazione che deve invece trasformarsi da classificatorio a formativo.
  • La formazione degli insegnanti è molto impegnativa: solo uno su dieci la porta a termine. Il Ministro Bussetti è arrivato ad affermare che è sufficiente la laurea per insegnare. Se si trattasse di lauree in cui si potesse scegliere un biennio magistrale indirizzato all’insegnamento, che preveda anche un periodo di tirocinio, magari sì. Ma la laurea esclusivamente rivolta all’approfondimento dei temi delle discipline di indirizzo non può certo essere sufficiente, anche se integrata dai quattro esami dei 24 CFU.
  • Gli insegnanti lavorano insieme, con modalità collaborative, per​ cercare continuamente nuove soluzioni didattiche, al fine di ottenere buoni risultati con tutti gli studenti, imparando gli uni dagli altri e ultimamente si punta all’apprendimento basato sullo studio interdisciplinare.

Se provassimo a fare anche in Italia alcune di queste scelte forse qualcosa potrebbe migliorare, ma in primo luogo dovrebbe cambiare l’atteggiamento nei confronti della scuola: non è una spesa fastidiosa da alleggerire il più possibile; è una risorsa fondamentale per il benessere degli studenti e per il futuro di un paese.

Va quindi curata e salvaguardata da tutti.