Ed ecco che anche il presente Ministro – il simpatico e garbato Marco Bussetti – non rinuncia all’idea di passare alla storia patria e dichiara: “presenteremo anche noi la nostra riforma”. Ed ecco che noi semplici insegnanti dovremo semplicemente subirla, poiché nessuno ci chiederà un parere. Quest’ultimo lo fornirà, a suo tempo, il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, e sarà un paludato parere, pieno di caute distinzioni, di ellissi, reticenze ed eufemismi.
Del resto pochi sanno bene questo consesso chi lo componga, quando si riunisca e cosa faccia. Forse, neppure esiste. Lo forniranno di certo i sindacati, e sarà un parere inteso a rafforzare il loro già tracimante potere (per quanto eroso dalla disaffezione degli iscritti) diramato attraverso i gangli delle RSU, i rituali delle delegazioni, le code dei patronati, gli arcani delle segreterie: niente che abbia neppure lontanamente a che fare con il quotidiano, maledetto e bellissimo lavoro dello stare in classe.
Un parere lo daranno anche i partiti: quelli della sinistra riprenderanno la stucchevole litania della laicità e dei fondi alle parificate, quelli della destra non sapranno cosa riprendere non essendosi mai seriamente occupati di scuola, e scopiazzeranno (al solito) qualche passo del programma del PD.
Rimarrebbero le Associazioni: hanno il know how, ma sono tradizionalmente poco loquaci. Ci permettiamo quindi noi di AESPI (che in verità abbiamo sempre parlato) di dire la nostra, per notulas, in modo sintetico, anzi più laconico di Leonida alle Termopili.
Ogni riforma scolastica dovrà mettere in primo piano la condizione professionale degli insegnanti. Ecco perché tutte le riforme posteriori a quella di Giovanni Gentile hanno fallito: perché si occupavano d’altro, di almanaccare l’architettura dei cicli e dei percorsi, di privatizzare l’istituzione, di introdurre metodologie didattiche fallimentari.
L’insegnante deve preparare con cura le sue lezioni, entrare in classe e svolgerle in un contesto di rispetto, attenzione, interesse per la cultura e per le persone. Questo e solo questo è la scuola: tutto il resto è contorno, e deve esistere solo in funzione della fase precedente.
La scuola non è un’azienda, ma una comunità umana con una configurazione gerarchica sui generis intesa allo sviluppo e alla diffusione della cultura e alla promozione dell’uomo. Ogni sua riduzione alla struttura aziendale la snatura.
Poiché la situazione disciplinare della scuola è drammatica, è necessaria una revisione dello “Statuto delle studentesse e degli studenti” nella direzione di una gestione ordinata e proficua della lezione.
Il massiccio afflusso nelle classi di studenti di lingua e cultura diversa dalla nostra non costituisce di per sé “una risorsa” come proclama certo facile buonismo, ma produce problematiche in ordine all’effettivo svolgimento dei programmi e alla qualità del lavoro in classe, con abbassamento generalizzato dei livelli. È dunque necessario dilatare, per i giovani nuovi italiani, i tempi dello studio della nostra lingua a loro dedicati, con intervento di personale specializzato o quanto meno fortemente motivato.
È opportuno verificare che i Piani Individualizzati per le varie disabilità vengano posti in essere per accertati motivi. Oggi talvolta lo sono, talvolta no.
E infine:
Prima Regola Aurea: più aumentano gli oneri burocratici, più il bravo insegnante si demoralizza e perde ogni motivazione a svolgere la sua professione, diventa un travet.
Seconda Regola Aurea: se le prerogative del Dirigente si dilatano, in misura proporzionale si contraggono quelle del docente. Ne deriva che, poiché le prerogative del Dirigente sono oggi massimamente estese, quelle del docente sono minime, con nocumento di quanto alla prima noterella, la più importante di tutte.
Ora valuti Lei, signor Ministro …
Alfonso Indelicato
AESPI
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