Rivolgendo la nostra attenzione alla “condizione giovanile” il primo dato emergente è che sia nel linguaggio comune sia nel lessico delle scienze sociali non sussista una salda definizione in relazione al contenuto delle parole “giovani” e “gioventù” [1] e tanto meno esista una stabile demarcazione del confine anagrafico nel quale si colloca la giovinezza. La giovinezza deve essere vista come un’età di confine collocata tra l’infanzia e l’età adulta, ma è assai difficile fissare tali limiti in quanto questi cambiano nelle diverse epoche storiche, da società a società.
Dunque: già problematico, parlando di scuola secondaria, inserirvi il concetto di gioventù scolastica. Il concetto di scuola e gioventù si è fatto più problematico dal momento che lo stato sociale degli ultimi decenni ha dato luogo ad un prolungamento della fase giovanile del ciclo della vita ed è questa la caratteristica predominante che accomuna i giovani d’oggi sia italiani che europei. Nella società che definiamo contemporanea i confini dei vari cicli di vita, principalmente quello relativo ai giovani, sono molto più ambigui e non definiti cronologicamente rispetto alle società passate. Stiamo parlando chiaramente di coloro che dobbiamo considerare gli allievi la cui cultura sociale ed umana dovrebbe trovare accoglienza e realizzazione nelle nostre scuole.
Ma sappiamo davvero chi sono? Giovani che vivono in ambienti della conoscenza multimediali e per questo presentano ciò che Derrick de Kerckhove[2] definirebbe un brainframe, e quindi uno schema di produzione del pensiero, diverso da quello legittimato dalla scuola del passato (e purtroppo anche attuale): un pensiero che è principalmente immersivo, reticolare, ri-oralizzato, non-proposizionale, a-testuale e tendente all’integrazione col non-verbale della corporeità. Come si fa, dunque, a proporre punti di riferimento rispetto alla “nuova scuola”, così come quei dodici proposti da Renzi, se prima non ci si pone di fronte alla “materia” che vogliamo elaborare nelle nostre “fabbriche di pensiero”?
E’ il solito discorso sbagliato: vogliamo edificare una fabbrica di marmellata mostrando interesse per la pubblicità, l’inscatolamento, la struttura architettonica, il colore dei camici e delle cuffie degli operai e l’etichetta, dimenticandoci della marmellata.
Per modificare l’istituzione scolastica italiana occorre partire, invece, proprio da loro: da questi “giovani” , di cui non siamo neanche in grado di definire chiaramente l’età, per pensare ad una scuola nuova adatta ai“nuovi” giovani. Insomma: vuol dire ripensare alla “forma-scuola”, fare sì che assuma una nuova identità, che si rigeneri dal di dentro, che sovverta le instabili e consumate stabilità, mettendosi al passo coi tempi dei nuovi giovani, che rinunci ad assumere come proprie verità divenute obsolete, per condurre avanti con nuova audacia la freschezza di ipotesi che non diano più per scontate verità accettate per tali soltanto per comoda abitudine.
Per farlo, è indispensabile precisare che cosa è divenuta oggi la scuola. Per farlo occorre viverla dal di dentro e parlare con chi la vive dal di dentro, non porre in moto meccanismi stereotipati e virtuali che con la verità della scuola italiana, ma soprattutto degli studenti che la vivono, non hanno più nulla a che vedere. Chi sono questi ragazzi? Stiamo parlando davvero di quelli che alcuni esperti definiscono “una generazione di tiranni”? O non sono, invece, il frutto della tirannia di una società che non ha più tempo da dedicare loro? Quella stessa che li relega, perché non diano fastidio, alle sedie dei computer o delle televisioni o all’ascolto di cellulari eternamente ronzanti, oppure, anche durante le ore di scuola, nascosti nei banchi, a giocare con i mille giochi che quelli stessi cellulari propongono loro?
Questa generazione di sconfitti e insoddisfatti la stiamo creando noi, in tutti i sensi. Nascono da noi, crescono con noi in quanto la società gli offre “oggetti del desiderio” assolutamente indispensabili, di cui un momento prima non conoscevano neanche l’esistenza. La società è fatta di pubblicità incontrollate ed incontrollabili., dove appare un mondo che non esiste se non nella fantasia folle di chi cerca di piazzare un prodotto.
La società non dice la verità. Non la dice sui cellulari che usano e rischiano di bucargli il cervello, sui giochi a computer che li fanno diventare ossessivi e spesso li istigano alla violenza, sui telegiornale, che mostrano in continuazione un mondo di falsità, bugie, delinquenza, giustizia fallace, sui telefilm, sulle soap opera (infinite), persino nei cartoni animati, che non fanno altro se non riempirgli la testa di illusioni e falsi mondi del benessere e del malessere. Li creiamo noi, a scuola, quando non offriamo loro l’esempio da seguire di un insegnante che arriva in orario, abbia giustamente i suoi dubbi, si ponga anche un po’ in discussione, ma rispetti le regole e spieghi con chiarezza le ragioni per cui vanno rispettate. Un insegnante che abbia un minimo di conoscenza della psicologia oltre della propria materia, seppure questa sia la matematica. E che possa anche contattarsi con quelle giovani teste così differenti dalle giovani teste di trent’anni fa. La scuola deve costruire innanzitutto insegnanti in grado di reggere il passo con un dialogo differente. Prima di tutto anch’essi giovani, perché venga colmato almeno in parte il gap generazionale.
Insegnanti che credano nel loro lavoro e non si sentano sconfitti in partenza in quanto malpagati, incompresi, offesi nell’esercizio delle loro funzioni. Vogliamo parlare di merito? Possiamo accettare che si tratti di un merito culturale: il lifelong learning (o apprendimento permanente), inteso come un processo individuale intenzionale che abbia l’intento di acquisire ruoli e competenze e che comporti un cambiamento relativamente stabile nel tempo. Ma senza dimenticare che il nostro insegnante deve innanzitutto essere in classe, presente, pronto al sorriso ed al rimprovero, certo delle sue certezze ma disponibile al dialogo. Deve prendere, purtroppo, un po’ il posto dei genitori, assenti o deludenti, dei politici corrotti, della politica inconcludente. Insomma occorre fornire loro un insegnante che insegni, oltre la sua materia, anche ad aprire gli occhi sul mondo, giacché è in quel mondo loro, i nostri giovani, debbono vivere.
Parliamo dunque degli “insegnanti”, del valore che debbono dare al contatto con individui veri, quali sono gli allievi, che non sono degli “avatar” da videogiochi, personaggi virtuali che possono “morire” e basta un “push” per far ritornare in vita. I nostri allievi sono teneri esseri umani, che si “formano” nel magma del nostro “sociale”. Il virtuale imperversa nelle loro vite, la pubblicità gli offre realtà del tutto o in gran parte distorte, fasulle; la politica viene letta in differenti chiavi di lettura, ma resta, molto spesso, ciò che è: inconoscibile. Quanto la religione. La “nuova scuola” che sia o meno quella proposta da Renzi nei suoi dodici punti, deve essere tale da fare sì che questi nostri ragazzi riescano a comprendere ed accrescere se stessi attraverso essa e trovino uno spazio non virtuale nel mondo in cui vivono. Solo così saranno loro gli artefici del mondo di domani.
[1] Cfr. Cavalli A. , voce “Giovani” in Enciclopedia delle Scienze Sociali,volume IV della Treccani, 1994. pp. 326-336.
[2] (1944),linguista e antropologo belga naturalizzato canadese, allievo del sociologo e teorico della comunicazione Marshall McLuhan.
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