Come in tutte le legislature degli ultimi 40 anni, anche in questa i soldi previsti per la Scuola (per non parlare di sanità e trasporti pubblici) continuano a rimanere pochissimi, malgrado la propaganda. PNRR a parte (i cui miliardi sono vincolati alla cosiddetta “innovazione tecnologica della didattica”), per gli stipendi del personale (docente e non), per l’edilizia scolastica, per ridurre gli alunni per classe (unica innovazione didattica oggettivamente efficace), sono previsti — quando sono previsti — solo spiccioli.
Spiccioli sono gli 800 miseri milioni del PNRR rispetto ai tredici miliardi (come minimo, secondo il ministero delle infrastrutture) necessari per la sicurezza e l’igiene delle scuole fuori norma. La Fondazione Agnelli (non certo nemica dell’attuale governo) stima sui 200 miliardi la spesa necessaria per rinnovare le nostre 40.000 scuole.
Del fantomatico “aumento”, vantato a fine 2022, i docenti non si sono nemmeno accorti (anche perché si trattava in realtà di emolumenti arretrati). D’altronde, per avvicinarsi allo spesso citato salario “europeo”, bisognerebbe aggiungere circa 1.300 euro a tutti gli stipendi attuali. Pochi però ricordano che ciò è impedito dal D.Lgs. 29/1993, il quale lega gli stipendi del Pubblico Impiego ad una frazione dell’inflazione “programmata” (dal governo in carica, controparte contrattuale del Pubblico Impiego stesso!). Inutile e illusorio, pertanto, sperare in cambiamenti sostanziali della retribuzione, finché tale è la legge in vigore.
Anche se in Italia gli sprechi son tanti, sembra quasi che stanziare fondi per la Scuola provocherebbe il crollo finanziario del Bel Paese. Eppure, paragoni tra Grecia e Italia non se ne dovrebbero fare, giacché il PIL greco è inferiore quello della provincia di Vicenza (ma la Grecia spende per la Scuola l’8,3% della spesa pubblica totale, contro l’8% dell’Italia), e il nostro debito pubblico è in massima parte nelle mani del risparmio italiano (giunto ad oltre 5.000 miliardi nel 2021).
Non si vogliono “sprecare” soldi per la Scuola: ma intanto lo Stato accumula miliardi di debiti verso le imprese che gli prestano forniture e prestazioni, e si obbliga così pagar loro (con estremo ritardo) anche gravosi interessi. 90 sono i miliardi di debiti statali verso le imprese, miliardi gli interessi pagati ogni anno (mentre migliaia di imprese all’anno falliscono proprio a causa dei ritardi nei pagamenti statali).
Nell’ultimo decennio, dal Governo Monti in poi, lo Stato ha garantito alle banche ben 85 miliardi. Intanto si aumentava inverosimilmente l’età pensionabile a 67 anni, e si affossavano Scuola, sanità e trasporti. Permanevano però le “pensioni doro”: nel 2018 il Governo Conte non portava a termine nemmeno il progetto di taglio delle pensioni anticipate superiori ai 4.000 euro mensili, che pareva potesse fruttare circa un miliardo all’anno.
Intanto, mentre tantissime famiglie italiane càmpano con stipendi letteralmente da fame, i “megadirettori galattici” — direbbe il ragionier Fantozzi — del settore pubblico o parastatale non trovano nessun governo che osi porre un limite ai loro megastipendi (i quali volano da un minimo di 5.000 euro mensili a vette di 240.000 annui) per fissare almeno a 1.500 euro il salario minimo, necessario alla sopravvivenza.
Per far soldi subito, d’altro canto, nel 2013 il governo Letta regala un sostanzioso sconto a dieci aziende del gioco d’azzardo, riducendo loro le multe di tre quarti (circa due miliardi) in cambio di un pagamento anticipato: lo scrive una testata amica, L’Espresso.
Eppure il nostro — malgrado l’autolesionismo — è ancora un Paese ricco, uno dei più ricchi al mondo. Il patrimonio immobiliare, dei depositi e degli investimenti ammonta più di 10.000 miliardi di euro. La ricchezza pro capite supera di otto volte il reddito (più che in Germania). Assicurazioni, banche, enti di previdenza e fondi immobiliari si spartiscono più di 80.000 immobili, che valgono 106 miliardi in tutto. Almeno 1.600 miliardi sono nei conti correnti.
150 miliardi li perdiamo ogni anno grazie all’evasione fiscale: un terzo di essi se ne va con l’evasione dell’IVA. Nel 1789, per una situazione analoga (clero e nobiltà erano esenti dalle imposte), i francesi che pagavano le tasse fecero la rivoluzione. Nell’Italia di oggi, dove tutte le tasse le pagano solo i lavoratori dipendenti, calma piatta. Gli italiani si appagano di calcio, cellulari e scrupolosa cura del proprio look.
C’è poi lo scandalo delle spiagge. Abbiamo più spiagge adatte al turismo di qualsiasi altro Paese europeo, e sei chilometri di spiaggia su dieci sono privatizzate dagli stabilimenti balneari, i cui privati gestori introitano 15 miliardi l’anno. Ebbene, lo Stato riesce a ricavarne solo 103 milioni. Basterebbe una misera — e anticostituzionale — flat tax del 10% (la quale sarebbe comunque un grosso sconto ai ricchi che ingrassano sullo sfruttamento dei beni pubblici) per trovare subito un miliardo e mezzo l’anno da destinare alla Scuola. Ci sono hotel che pagano allo Stato 520 euro l’anno, e se ne fan dare 35.000 a notte per una suite.
Orbene, tutti riconoscono — a parole — la necessità di investire sulla Scuola italiana per renderla degna di un Paese civile, sanando una situazione di degrado pluridecennale che è — al contrario — indegno dell’Italia, culla della civiltà. Non sono i soldi a mancare. Manca forse la volontà? O forse a qualcuno, lassù nel Palazzo, sta bene così?
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