Le recenti dichiarazioni del ministro Giuseppe Valditara al quotidiano Libero sono interessanti, e vorremmo sottoporle a riflessione. Insigne giurista e politico, Valditara è docente di Diritto privato e pubblico romano all’Università di Torino. Non proviene, dunque, dall’insegnamento scolastico.
Il ministro sostiene che «da metà degli anni ‘70 il nostro sistema di istruzione non fa più da ascensore sociale e non consente un miglioramento delle condizioni famigliari di partenza». Parzialmente vero; inesatta, secondo noi, la datazione proposta, che va posdatata di un ventennio.
L’ascensore sociale, prima offerto dalla Scuola, si è inceppato semmai a partire dalle “riforme” degli anni ‘90 e 2000 (di cui nei nostri articoli abbiamo più volte parlato), che gradualmente hanno aziendalizzato la Scuola, trasformandola in impresa di tipo privato, in competizione con altre imprese analoghe sul territorio, miranti non alla serietà dell’istituzione scolastica (né al progresso effettivo della didattica), ma all’accaparramento di “utenti”/clienti mediante una “offerta formativa” spesso di facciata (progetti, “olimpiadi” varie, gite scolastiche, valutazioni generose, attraenti “open day”, e via così). Poco a poco, tutto ciò ha snaturato la missione della Scuola-istituzione, limitandone l’efficacia sul piano della preparazione degli allievi e, quindi, minandone le potenzialità di ascensore sociale.
Infatti, la generazione di coloro che conclusero gli studi tra anni ‘60 e ‘80 ha migliorato nettamente le proprie condizioni sociali rispetto alle generazioni dei genitori e dei nonni: innegabile frutto, per l’appunto, della Scuola pubblica frequentata proprio in quei decenni.
Secondo il ministro l’eredità negativa del ‘68 sarebbe «La negazione dell’autorità, che è cosa ben diversa dell’autoritarismo». A noi questa dichiarazione appare veritiera solo in parte.
Nel ‘68 i ragazzi che contestavano l’autoritarismo chiedevano alla società degli adulti di esser guidati dall’autorevolezza, non da Autorità cui obbedire senza discutere. Era una richiesta di democrazia vera. Gli estremismi ci furono, è ovvio, ed ebbero molti effetti terribilmente negativi (come il terrorismo, di sinistra e di destra, poi abilmente sfruttato dal potere con la strategia della tensione); ma perché citare solo quelli?
Una conseguenza positiva del movimento degli anni ‘70 fu la speranza di cambiare il mondo in meglio, sulla base di un pensiero critico che non dava nulla per scontato. «Cambia la società, prima che la società cambi te» si diceva. I giovani leggevano, discutevano, progettavano. Non tutto era positivo, ma non tutto era negativo.
Stonato appare l’accenno del ministro Marcuse e alla Scuola di Francoforte, i cui testi erano studiati attentamente dai giovani di mezzo secolo fa. Quei testi facevano luce su aspetti controversi della società contemporanea, mettendone a nudo certezze false e autentiche ipocrisie; e lo facevano con rigore scientifico, da vari punti di vista (sociologico, psicologico, psicanalitico).
Interpretare un’epoca storica in chiave ideologica, per condannarla in blocco (così come per assolverla in blocco), non ha senso sul piano storiografico, ed è molto sospetta sul piano politico. Somiglia pericolosamente a quanto facevano due secoli fa quegli aristocratici coi parrucchini incipriati che, in pieno Ottocento, avrebbero voluto cancellare in un sol colpo 25 anni di rivoluzione francese (come il ‘68 ufficialmente sconfitta, ma vincitrice sostanzialmente sul piano culturale, per le trasformazioni irreversibili che aveva indotto nel costume e nella mentalità).
La critica all’autorità (intesa come autoritarismo, e ben diversa dall’autorevolezza) non mette affatto in pericolo la figura del docente in cattedra. Anzi, la potenzia. Il/la docente, infatti, se è bravo/a e sicuro/a della propria cultura, invita gli studenti proprio al pensiero autonomo. Non presenta loro verità e certezze assolute, ma una realtà poliedrica, da indagare insieme sulla base dell’autorevolezza guadagnata (meritata!) dal docente stesso/a mediante decenni di studi e di pratica didattica. Non si barrica dietro alla propria autorità per obbligare al rispetto: lo pretende perché essere umano, perché adulto, perché colto, perché docente. E lo ottiene comunque, perché nessuna legge aziendalista del “mercato” può togliergli la dignità implicita nel suo ruolo di insegnante; così come nessuna gerarchizzazione della Scuola-azienda ha questo potere. Lo sanno bene tanto i ragazzi quanto i loro genitori, malgrado la diseducazione regalata a piene mani da troppi media e dalla propaganda ufficiale (che sono i veri responsabili — altro che ‘68! — dello svilimento del docente, da essi continuamente perpetrato).
Valditara infine stigmatizza — giustamente — «l’aver messo sullo stesso piano il messaggio di chi sta in cattedra, per insegnare, e le opinioni di chi sta sui banchi, per apprendere».
Tuttavia il docente autorevole non teme le opinioni soggettive dello studente; anzi, la sua forza sta proprio nello stimolare alla riflessione autonoma una generazione (altrimenti narcotizzata dal consumismo) per liberarla da manipolazione, massificazione, omologazione. L’arroganza (di chi — da ignorante — crede di saperne più di un professore) va ovviamente rintuzzata; ricordando però che essa non ha nulla in comune col pensiero critico, l’obiettivo più desiderabile della didattica.
La protervia sfacciata di troppi giovani (e dei loro genitori) è un frutto perverso proprio della restaurazione post-sessantottina: quella che, dopo gli anni di piombo, rinchiuse gli italiani davanti ai canali televisivi a ingozzarsi di stereotipi pubblicitari, relegandoli nel buco nero di una dimensione privata fatta di alienazione dal reale, di edonismo autistico, di culto dell’ego.
Il Professor Valditara — ne siamo convinti — è persona troppo colta e raffinata per poter misconoscere tutto ciò.
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