Qual è la filosofia del “Pnrr” del governo per quanto riguarda la scuola (diciamo filosofia per generosità)?
Il punto fondamentale è la sostituzione della ricchezza culturale ed educativa della scuola con un’idea di organizzazione burocratica che cresce su se stessa e serve solo a se stessa, che porta profitti – ad esempio dando lavoro agli enti formatori – indipendentemente dalla realizzazione o meno di quelli che dovrebbero essere gli scopi fondamentali di un’istruzione pubblica: far crescere cittadini alfabetizzati, colti e consapevoli.
Basta vedere quali sono gli ambiti in cui, secondo la bozza del recente decreto legge del governo sul reclutamento e la formazione dei futuri insegnanti, dovrebbe svolgersi la “formazione continua” dei docenti. C’è un solo ambito, bontà del Miur, dedicato alla conoscenza degli argomenti delle discipline che gli insegnanti dovrebbero insegnare (ma, attenzione, sappiamo che il governo sta lavorando anche a un disegno di superamento delle discipline nella scuola primaria e alle medie); gli altri, all’interno dei quali verranno scelti i corsi necessari alla progressione stipendiale degli insegnanti e forse, in un prossimo futuro, alla stessa possibilità di continuare a fare questo lavoro, sono:
– “strumenti e tecniche di progettazione-partecipazione a bandi nazionali ed europei”;
– “governance della scuola: teoria e pratica”;
– “leadership educativa”;
– “staff e figure di sistema: formazione tecnico metodologica, socio-relazionale, strategica”;
– “continuità e strategie di orientamento formativo e lavorativo”;
– “potenziamento delle competenze in ordine alla valutazione degli alunni”;
– “profili applicativi del sistema nazionale di valutazione delle istituzioni scolastiche”;
– “tecniche della didattica digitale”.
Ogni commento sarebbe superfluo: si tratta di un ridicolo apparato para-aziendalistico, appunto, che con l’insegnamento non ha niente a che fare; e non ha niente a che fare con una seria preparazione riguardante la psicologia dell’età evolutiva e i bisogni profondi di bambini e adolescenti, a meno che non si intenda per tale un rozzo comportamentismo da stage motivazionale (“leadership educativa”).
Ma il vero dramma, più ancora di quello della “formazione continua”, sarà quello del reclutamento: i futuri insegnanti, già all’università, prima ancora (e probabilmente invece) di approfondire le conoscenze fondamentali delle proprie discipline, prima di appassionarsi liberamente ad esse, dovranno preoccuparsi di “formarsi” tramite il sistema dei “cfu” sulla buro-pedagogia astratta che conosciamo bene, quella delle “metodologie” standardizzate di insegnamento che vengono imposte a priori, con una paradossale inversione mezzi-fini, senza tenere conto dei contenuti culturali da condividere, della specificità delle singole discipline, della concreta situazione educativa e relazionale nella classe, delle finalità didattiche che si vogliono portare avanti.
Il rischio è che i futuri insegnanti non avranno più nulla da insegnare ai propri studenti, se non quattro formulette vuote e burocratiche del totalitarismo didattichese, quello delle “unità di apprendimento”, “della flipped classroom”, del “cooperative learning”, della “certificazione delle competenze”, sonore banalità – che gli insegnanti hanno sempre messo in pratica – presentate con un pomposo apparato pseudo-teorico che serve a farle credere importanti, inevitabili e nuovissime e a distogliere l’attenzione da ciò che davvero conta nella scuola, il valore dei contenuti culturali che vengono proposti e la relazione umana all’interno delle classi (cioè l’insegnamento stesso, che è condivisione di conoscenze e contenuti culturali significativi attraverso la relazione tra insegnanti e studenti).
Per non parlare del ruolo salvifico attribuito sempre e comunque al “digitale” – tra l’altro dopo due anni di disastrosa “didattica a distanza” – al di fuori di ogni ragionamento sulla congruenza tra mezzi e finalità didattiche ed educative.
Questa “rivoluzione” del reclutamento prevede lo svuotamento dei concorsi pubblici (ne abbiamo avuto un’anticipazione con il sistema delle domande a risposta multipla, modalità ipernozionistica che, come profezia autoavverantesi e paradosso, è stata introdotta proprio da coloro che vogliono far credere che la conoscenza equivalga al nozionismo ed eliminarla in quanto tale dalla scuola) e l’impoverimento di una seria formazione universitaria dei futuri docenti a vantaggio di un’inarrestabile certificazione del nulla, di un sistema di corsi, corsini e di “certificazioni” di dubbia provenienza e utilità.
Nell’introdurre questa “riforma” (tra l’altro attraverso la modalità del decreto legge, che dovrebbe essere adottata solo per questioni di particolare urgenza, non certo per ciò che riguarda il futuro delle nuove generazioni e della nostra società), il ministro dell’Istruzione evita qualunque reale confronto con chi nella scuola lavora, così come evita il dibattito nelle commissioni parlamentari e con i sindacati: chi lavora nella scuola gli spiegherebbe che a pagare il prezzo di questo ennesimo pasticcio saranno gli studenti, che non verranno più istruiti – a meno che non abbiano la possibilità di frequentare scuole private d’élite – e avranno sempre meno possibilità di avvicinarsi alla ricchezza dei contenuti culturali con l’aiuto di persone che siano davvero in grado di padroneggiarli. Vediamo già gli effetti di vent’anni di “riforme” dissennate, con la diffusione tra i giovanissimi di un drammatico analfabetismo.
Sarebbe invece estremamente importante ragionare sull’autentica formazione degli insegnanti, che è sempre e soprattutto frutto di seri studi, di reali interessi culturali, di autoformazione, di apprendimento dall’esperienza altrui, e non una parodia aziendalistica estranea ai bisogni e alle logiche della scuola, imposta da chi di scuola non sa e non capisce nulla.
Riprendendo uno spunto dello psicoanalista Alessandro Zammarelli, si può dire che un insegnante che, anche attraverso una vera formazione culturale e un’esperienza professionale significativa, ha potuto sviluppare un’identità piena, e che mette nell’insegnamento la propria personalità e il proprio modo di stare al mondo, stimola indirettamente gli studenti a cercare la loro, di identità, facendo da esempio in tal senso; al contrario, un insegnante eterodiretto, chiamato ad applicare meccanicamente e burocraticamente delle metodologie di insegnamento spersonalizzate, passa agli studenti il messaggio opposto, di un’identità debole o inesistente, che può essere puntellata solo attraverso l’ubbidienza e il conformismo, attraverso la rinuncia al pensiero.
Gruppo La nostra scuola
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