È facile insegnare in un Paese che sottovaluta (se non disprezza) il lavoro dell’insegnante? È facile farlo, se sei donna, e tutti sono convinti che fai la docente proprio perché sei donna e vuoi “tanto tempo libero”?
Che vita vivono le tantissime insegnanti italiane oggi, dopo i 30 anni di controriforme cui il mondo della Scuola è stato sottoposto — verrebbe da dire — “senza anestesia”, con l’unico scopo (non dichiarato) di amputare la quota di spesa pubblica (in costante diminuzione dal 1982) dedicata a questo settore basilare della vita di una nazione?
Ogni anno, l’8 marzo, politici, sindacati firmatari di contratto, governanti di qualsiasi colore non mancano di dedicare dichiarazioni di solidarietà alle donne. È un profluvio di complimenti, di riconoscimenti, di «Adesso basta», di «È ora di finirla» e via “roboando” (ci si perdoni il brutto ma espressivo neologismo). «Ognuno ll’ha adda fa’ chesta crianza, ognuno ha dda tene’ chistu penziero», direbbe Totò.
Bellissime (e certo sincere) le parole del ministro Valditara l’8 marzo scorso: «È la festa in onore del simbolo della vita. Voi donne tenete in piedi la nostra società, la nostra vita. Attraverso voi ringrazio anche chi mi ha dato la vita, la bellezza di chi è stato accanto a me e ai miei figli. Ringrazio tutte le splendide persone di sesso femminile che mi hanno arricchito e dato tanto. Ringrazio le mie professoresse e maestre, tutte le donne splendide che hanno contribuito a render più bella, significativa e stimolante la mia esistenza. Grazie a voi donne per esserci».
Le docenti possono star quindi tranquille? Qualcuno si accorgerà che, guarda caso, tra i laureati della Pubblica Amministrazione italiana i meno pagati sono gli insegnanti? E che, sempre per caso strano, il settore pubblico con la massima presenza femminile è proprio quello della Scuola, dove l’82,9% dei docenti è donna (mentre nei Paesi OCSE sono poco più del 68%)?
In Europa le donne guadagnano in media il 15% meno degli uomini. In Italia questo divario è ridotto al 5%. Tuttavia, come lo stesso ISTAT riconosce, esiste una «segregazione di genere a livello occupazionale (ad esempio, ci sono più uomini che donne in alcuni settori/occupazioni con retribuzioni mediamente più alte rispetto ad altri settori/occupazioni). Di conseguenza il divario retributivo è legato a svariati fattori culturali, legali, sociali ed economici che vanno molto oltre la mera questione di un’uguale retribuzione per un uguale lavoro». Per puro caso, naturalmente.
Insomma, tra docenti uomini e docenti donne, nessun divario retributivo: ma gli insegnanti d’Italia (donne in massima parte) hanno retribuzioni nettamente inferiori agli altri laureati e a tutti i colleghi europei. Sempre per caso.
Essendo il nostro un Paese dal livello culturale medio visibilmente arretrato, molti nostri concittadini son convinti che insegnare sia facile e riposante; che si diventi docente per lavorare poco e aver tanto tempo libero; e che per questo motivo gli uomini facciano altri lavori “più degni” e “difficili” (e quindi meglio pagati).
Dopo decenni di neoliberismo, in cui unico scopo della vita sono diventati il denaro e la competizione per affermarsi, l’idea che 900.000 laureati scelgano un lavoro sottopagato per amore dell’insegnamento e della condivisione del sapere, risulta, alla maggioranza assoluta dei nostri connazionali, totalmente incomprensibile, e perciò impossibile da credere.
Quindi, sebbene tutti vedano le docenti sgobbare, indaffarate, affannate ogni giorno tra lezioni, gite, coordinamenti di classe, consigli di classe, verbali, burocrazia soffocante, compiti amministrativi loro affidati per ovviare alla carenza di personale delle segreterie scolastiche, colloqui genitoriali, GLO, collegi dei docenti, consigli d’istituto, corsi d’aggiornamento, correzione di elaborati e verifiche, programmazioni, relazioni ed altro; sebbene tutto questo parossistico lavorio delle insegnanti sia sotto gli occhi di tutti, esso non viene guardato; e quindi non viene visto.
I genitori, in massima parte, si preoccupano solo dei voti dei figli. Di tutto il resto (sicurezza degli edifici, salubrità dell’aria in classi con 30 alunni, stato di salute fisica e mentale di docenti invecchiati stressati e colpevolizzati, qualità della vita relazionale all’interno della comunità educante in situazioni consimili) non cale ad alcuno. A dimostrazione del fatto che non si vede ciò cui non si vuol credere, perché non ci si aspetta di vederlo: come accadde agli indiani d’America, che non videro le navi di Colombo perché estranee alla loro esperienza.
La vita dei (delle) docenti in Italia sta diventando impossibile. Non hanno più tempo libero, nemmeno per star (bene) con la famiglia, né per leggere un libro. Chi ce l’ha con loro (magari per un 4 preso scuola ai propri tempi) può dirsi soddisfatto. Ma è giusto far vivere così chi lavora per insegnare agli altri? E fa bene alla Scuola che gli insegnanti non abbiano più un momento per sé? È positivo che una docente (persino di materie umanistiche!) non abbia soldi, tempo né energie per andare a teatro o a una mostra, leggere Tolstoj, ascoltare Beethoven? Fa bene ai nostri ragazzi che la Scuola, così malridotta, abbia ridotto così le donne (e i pochissimi uomini) cui i nostri ragazzi (e il nostro futuro) sono affidati?
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