Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, nel loro libro, lanciano una tesi secondo cui negli ultimi anni i progressisti, per eccesso di buonismo e per venire incontro alle classi meno agiate, abbiano appiattito le difficoltà tipiche della scuola, annacquato il percorso di studi e il livello di preparazione degli studenti. Una ideologia cieca che alla fine avrebbe prodotto l’accentuarsi delle disuguaglianze e ridotto le basi per il ricambio della classe dirigente, condannando il Paese alla stagnazione e ponendo le basi del grillismo.
Una tesi secondo la quale l’indulgenza della valutazione e una istruzione di bassa qualità non solo hanno ridotto le possibilità di successo dei più deboli economicamente e socialmente, ma amplificato pure il vantaggio dei ceti alti nei confronti dei ceti bassi. Chi ha voluto tutto ciò sarebbero stati i progressisti che hanno preteso sia che certe materie venissero alleggerite o tolte, sia l’abbassamento dell’asticella della valutazione, sia l’abbattimento di esami, propedeuticità e requisiti di ingresso che invece prima impedivano agli studenti dall’intraprendere studi per cui non avevano le basi.
Ma non solo. Secondo questa tesi, la cultura progressista, battendosi per la democratizzazione della scuola, avrebbe impedito che la cultura alta venisse messa a disposizione di tutti, per un “diritto al successo formativo” che ha demonizzato gli insegnanti che si opponevano all’abbassamento dell’asticella, bollandoli come reazionari o liquidandoli come incapaci di stare al passo con i tempi.
Una cultura progressista che ha promosso la distruzione della scuola e dell’università come luoghi di cultura e che oggi, se si possono ritenere vincitori, hanno però ucciso la vera formazione e la crescita di una importante classe dirigente e lasciando ai pochi che ce l’hanno fatta la via dell’emigrazione all’estero, visto che i posti di potere sono andati ai figli dei più abbienti.
Per i sostenitori di questa tesi, in definitiva, i progressisti, imbevuti di principi di eguaglianza, avrebbero dovuto battersi perché tutti possano cimentarsi con successo in studi alti, e invece si sono mossi per abbassare il livello perché tutti possano vincere, danneggiando così i ceti popolari, perché riducendo gli standard sono aumentate le diseguaglianze sociali.
“Ricevere un’ottima istruzione era l’unica vera carta in mano ai figli dei ceti bassi per competere con i figli di quelli alti, cui molti di voi progressisti appartengono”.
Che è una tesi nella quale però si dimentica di dire che il punto più basso della nostra istruzione si raggiunse durante il primo governo Berlusconi, di centro destra, che distrusse la riforma Berlinguer, portò gli esami di stato coi membri solo tutti interni, per favorire scuole private, tolse il recupero s settembre dei debiti formativi, eliminò alcune discipline, fino al colpo finale della cosiddetta “riforma Gelmini” che tagliò non solo fondi alla scuola (con la cultura non si mangia, ripeteva il ministro del tesoro) ma anche molte discipline negli istituti tecnici e nei professionali, proponendo nello stesso tempo la scuola-azienda e favorendo senza ritegno la scuola privata secondo il “modello Milano” della sanità lombarda che solo ora, col covid, ha dato prova della sua insulsa vacuità.
Ecco, questi dati, sommariamente da noi descritti, non pare siano stati affrontati da Mastracola e Ricolfi, né presi in considerazione, anche se riguardano la storia della nostra istruzione e della nostra scuola.