Attualità

La valutazione degli alunni come forma di potere? Si può gestire il rapporto educativo in modo non autoritario ? Parliamone [INTERVISTA]

Con Maurizio Parodi, formatore, ex dirigente scolastico, autore di pubblicazioni di successo sul tema del “no compiti a casa”, parliamo del problema della valutazione scolastica.

Il dibattito sul voto è sempre vivo e lei interviene spesso evidenziare “storture” spesso presenti nella pratica didattica quotidiana. Lei ha parlato talora persino di “uso terroristico” del voto.
Cosa intende dire esattamente?

La cultura docimologica imperante conferisce spessore scientifico, oltre che valore pedagogico, al giudizio unilaterale del docente, esaltandone la valenza diagnostica che si esplica nella somministrazione di prove di verifica, nella compilazione di schede di valutazione, nella formulazione di giudizi, in azioni, cioè, finalizzate all’intervento “sullo” studente, senza mai accertare l’adeguatezza del contesto scolastico, la validità del modello pedagogico, la qualità del processo di insegnamento, la bontà della relazione educativa.

Già la valutazione espressa (e impressa) da un numero significa eloquentemente l’aridità di un sistema che rinnega il proprio compito formativo, ma gli stessi “giudizi descrittivi”, pur apprezzabili nelle intenzioni di chi meritoriamente li propone in alternativa al voto numerico, non modificano il carattere sanzionatorio, e sovente punitivo, della valutazione scolastica, impresso nella testa di docenti, studenti e genitori e nelle logiche più profonde e inossidabili dell'”apparato”.

C’è però chi afferma che alla fin fine, valutare rientra pur sempre fra i compiti del docente e della scuola più in generale.

Possiamo anche essere d’accordo, ma poi accade persino che taluni docenti ricorrano a forme di valutazione degli studenti offensive della dignità o della diversità del singolo, quelle che esprimono, più o meno esplicitamente, più o meno subdolamente, giudizi sulla persona attraverso la pubblica riprovazione, i commenti irrispettosi o l’uso terroristico del voto, ma anche con il ricorso a forme di correzione degradanti, a partire da certi “segnacci” carichi di violenza simbolica, fino alla ripetizione punitiva della formula esatta.

Qual è la soluzione?

La scuola deve “disarmarsi” soprattutto rispetto alla valutazione, smettere di usare il voto, alla stregua di un’“arma” (spesso “impropria” e non di rado letale, nel senso della mortalità scolastica), contro gli studenti, emendandone la pratica, laddove sia necessaria, dagli elementi di arbitrio che ne fanno lo strumento principe di un potere esercitato anche abusivamente, con chiaro intento vessatorio, e persino accompagnato dalla compiaciuta ostentazione della lesiva discrezionalità.

Lei osserva anche che il linguaggio stesso che usano gli insegnanti denota un rapporto di potere o di tipo paternalistico nella migliore delle ipotesi. Molti docenti, lei dice, parlando degli studenti della classe usano l’espressione “i miei alunni”. Perché questa espressione non le piace?

Si tratta di un’espressione d’uso comune, da non demonizzare, ovviamente, eppure controversa, ambigua o addirittura sospetta giacche richiama logiche proprietarie, legate, appunto, al possesso dell’altro e all’uso di un potere esercitato abusivamente, come peraltro testimoniano i “giudizi” sprezzanti ai quali ho appena fatto riferimento.
Ma, ne convengo, può darsi una diversa accezione, non necessariamente paternalistica, che evoca più la condivisione, la vicinanza. I miei studenti, ovvero le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi che sono con me, in una condizione che ci distingue e accomuna: io sono per loro, non potrei essere altrimenti (docente), e loro sono per me, non potrebbero essere altrimenti (studentesse o studenti), perciò mi dicono il “loro” maestro o professore.

Si tratta, allora, più di appartenenza che di proprietà. In questa benevola, empatica accezione si può forse riabilitare il “possessivo” esercitando, però la massima sorveglianza non solo semantica.
Ben sappiamo, per fare l’esempio più tragico, come l’espressione “la mia donna” sia drammaticamente connessa ai più orribili e feroci abusi sul corpo femminile da parte di maschi che si reputano proprietari, detentori persino del potere di vita e di morte.

Lei ha lavorato per decenni come insegnante, come dirigente scolastico e come formatore. Non le sfugge quindi il fatto che il rapporto studente-docente è assolutamente asimmetrico: come fare per evitare di trasformarlo in un rapporto di potere?

L’asimmetria è necessaria e non può essere occultata o dissimulata. In termini molto banali: i docenti sono responsabili degli studenti mentre gli studenti non sono responsabili dei docenti.
Ma l’autorità della scuola e dell’insegnante deve essere, in primo luogo un riflesso dell’autorità della cultura; non quella immediata che si respira negli ambienti di vita o attraverso i mass-media, bensì quella elaborata o rielaborata incessantemente dall’educatore, affrontando le sfide del presente anche con gli strumenti offerti dalla grande tradizione del passato.
L’autorità affidata al mero esercizio del potere impedisce la crescita, blocca le energie, spegne la vita.
In particolare il ricorso a forme di svalutazione o coercizione per ottenere l’adeguamento a uno standard di condotta, anziché incrementare il senso di responsabilità, alimenta comportamenti reattivi, di difesa, anche molto offensiva (degli altri o di sé).

C’è la possibilità di gestire in modo non autoritario il rapporto docente/alunno?

L’alternativa alla gestione autoritaria della classe, per rimanere nell’ambito (docimologico) dal quale siamo partiti, è rappresentata dalla partecipazione (“Libertà è partecipazione”, Giorgio Gaber).
Condividere con gli alunni la valutazione delle conoscenze e delle competenze, ma anche dei processi di apprendimento, dell’efficacia dell’azione didattica, esplicitando e, laddove possibile, discutendo, concordando criteri e strumenti, con il duplice risultato di sollecitare una maggiore attenzione, quando non l’impegno diretto, da parte degli studenti, e di limitarne l’esercizio arbitrario, umorale o, peggio, ideologico.

Con quale risultato?

In questo modo, si aiutano gli studenti ad acquisire una maggiore consapevolezza di sé e degli altri, un controllo più consapevole del proprio agire, sostenendo gli stessi meccanismi di metacognizione, alla efficace gestione dei quali è per molta parte affidato il successo non solo scolastico.

Reginaldo Palermo

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