Prosegue l’impegno della Tecnica della Scuola nell’ambito dell’iniziativa “La Scuola che verrà”, il contributo realizzato da un team di esperti che anno messo a punto dekke indicazioni operative sull’organizzazione della scuola, dell’attività didattica, del personale docente e Ata, per riprendere a settembre in maniera ordinata e pianificata. Il professor Giovanni Morello, che fa parte di questo team, ha prodotto un contributo sulle difficoltà nell’attuare la valutazione degli alunni al termine della didattica a distanza ed in vista del prossimo anno: un argomento che nei prossimi giorni riguarderà l’intero corpo docente, alle prese con gli scrutini di fine anno.
———-
In questo “storico” anno scolastico, lo sguardo valutativo dei docenti dovrebbe essere incentrato soprattutto sulla rilevazione delle competenze più che delle conoscenze e abilità in senso stretto (che sono ovviamente e imprescindibilmente, comunque, la base delle competenze).
Per ovvi motivi, la didattica a distanza (così come i meccanismi motivazionali degli allievi, il che qualcosa vorrà pur dire) non “premia” le domande di natura “enciclopedica”. Per intenderci, quelle che richiedono agli studenti una esposizione sostanzialmente riproduttiva del quadro di conoscenze superficiali (termine usato qui in senso tecnico) ricavate da quanto hanno studiato (“Parlami del colpo di stato di Napoleone”). La conoscenza superficiale, che è comunque importante, potrà emergere in ben altro modo rispetto al classico ricordare: “incorporata” (in quanto utilizzata) in altro tipo di risposte.
La valutazione in condizioni di distanziamento forzato e prolungato necessita invece particolarmente (o ne esalta l’utilità) di quesiti e di contesti problematici che attivano (diremmo, “stanano”) processi cognitivi importanti: “Secondo te, quello compiuto da Napoleone il 18 Brumaio è un ‘colpo di Stato’? E perché? Era l’unica possibilità che aveva, politicamente? Tu avresti fatto diversamente?”.
Lo studente potrà anche attingere in quello stesso momento alle informazioni che non aveva studiato precedentemente, per poter andare a cercare quanto gli serve per rispondere alla sfida problematica che gli è stata messa di fronte. Mentre, secondo l’idea “classica” di verifica-valutazione, con la semplice richiesta di ripetere ciò che egli ha studiato, sarebbe risultato “impreparato” e la cosa si sarebbe chiusa lì, con una insufficienza.
Il ragazzo comunque preparato, a quella domanda, leggendo il testo o altri materiali eventualmente non studiati prima, potrà rispondere, perché ha strutture di conoscenza che gli consentono di orientarsi (cos’è un “colpo di stato”, cos’è la Costituzione, differenze fra ruolo politico e ruolo militare, la Francia del tempo, il Direttorio, ecc.). E, in questo caso, le risposte potranno andare da quelle più povere (“è entrato con i soldati, quindi secondo me, sì, è un colpo di stato”) ad altre ben più articolate. Il ragazzo sostanzialmente impreparato non saprà invece rispondere a tali quesiti neanche rileggendo venti volte il testo che in quel momento avrà finalmente davanti: non saprà “cosa fare” con le informazioni che ha sotto mano, non saprà come orientarsi al loro interno, per mancanza di una mappa cognitiva adeguata, capace di dare a queste ordine e senso.
Si badi che, in questo modo, cadono anche i pregiudizi di scarsa validità e di scarsa equità della prova o della situazione di apprendimento utilizzata dal docente, perché anche lo studente che, ad esempio per motivi di connessione, non ha potuto studiare prima, viene comunque messo nelle condizioni di leggere e rileggere un testo che colmi questa mancata esposizione alle informazioni di superficie di cui hanno goduto gli altri compagni. Perché il “varco” a cui è atteso è comunque ben altro.
Se lo studente avrà fatto molto poco, insomma, ciò emergerà non tanto dal fatto che non ricorda quanto avrebbe dovuto, ma dal fatto che ciò che sa è troppo poco perché ne possano generare processi importanti ed egli ne possa fare gran che di fronte a quesiti che lo mettono “in situazione”.
Al di là delle singole prove di verifica, gli studenti potranno essere messi spesso, in tante situazioni di apprendimento, in condizione di risolvere problemi in contesti nuovi ed il docente avrà una mole nutrita di osservazioni da effettuare per vedere come se la cavano di volta in volta e, quindi, potrà anche inquadrare quali processi essi riescono ad attivare e con quali sono invece più in difficoltà.
Indicatori “naturali” per questo tipo di obiettivo sono ovviamente i traguardi per lo sviluppo delle competenze (competenze di base, nella dizione del secondo ciclo). Spesso disattesi nella prassi didattico-valutativa. Nelle “Indicazioni nazionali” per il curricolo per il primo ciclo sono definiti del resto chiaramente come “criteri per la valutazione delle competenze attese” e “riferimenti ineludibili per gli insegnanti”. Ma sappiamo che, su questo punto, la realtà è probabilmente un’altra.
La loro importanza consiste nel fatto che essi costituiscono una sorta di “ponte” fra conoscenze e abilità disciplinari da un lato e competenze chiave dall’altro. Il ragazzo che ha raggiunto tali traguardi, infatti, dimostra che ciò che ha appreso (in termini di conoscenze e abilità) in una determinata disciplina, lo sta portando di fatto a sviluppare anche competenze. Cioè, ad acquisire la capacità di mettere in movimento tutte le proprie risorse (anche e soprattutto conoscitive, ma non solo) per affrontare in modo autonomo, flessibile, adattivo, consapevole e responsabile, i problemi anche relativamente (e moderatamente) “spiazzanti” che la vita gli pone davanti.