La maggior parte degli insegnanti (nel mondo!) tende a considerare la valutazione come, essenzialmente, attribuzione di un voto (o di un giudizio), valutazione considerata poi di qualità se, attraverso tale voto, risulta “giusta”, “corretta”, perfino “oggettiva”. Le indagini internazionali sulle modalità valutative attive nelle scuole nel mondo (le meta-analisi di Black e William, 1998, e altre effettuate dopo) riportano questo dato, non proprio positivo.
Nel più che comprensibile tentativo di inseguire tale miraggio (perché di questo si tratta, in quanto non esiste un voto “giusto” in senso assoluto ma, semmai, un voto coerente con indicatori, parametri e standard, scelti da chi valuta secondo specifici criteri didattici), si perde tuttavia spesso di vista l’aspetto più importante della valutazione, che è ben altro, cioè il flusso di informazioni utili che attraverso essa dovrebbe essere scambiato fra alunno e insegnante.
C’è insomma un ampio consenso a livello scientifico proprio sul fatto che la valutazione “migliore” è quella costruita per motivare il più possibile l’alunno al miglioramento (anche se, ovviamente, non è detto che ci riesca sempre). Il che comporta che essa eviti soprattutto, per converso, di costituire un pericolo (più o meno costante) nei confronti di quell’insostituibile patrimonio di benessere psicologico, motivazione e disponibilità all’apprendimento che è associato ad una adeguata autostima dell’alunno. Anche lì dove l’esito della prova fosse negativo in termini di attribuzione numerica.
Per riuscire in questa “equilibristica” impresa (prevalentemente motivare anziché demotivare, sia dove l’esito di una prova è positivo sia dove non lo è), la valutazione deve soprattutto offrire all’alunno informazioni fondamentali per il suo apprendimento futuro, attraverso feedback molto specifici a) su cosa funziona e su cosa non funziona nella sua prestazione in una prova; b) su quali obiettivi (prossimali) egli può porsi conseguentemente e realisticamente da subito e c) su quali strategie di apprendimento gli conviene adottare per migliorare.
In poche parole, la valutazione efficace non si focalizza tanto sul voto attribuito, mero elemento di sintesi di informazioni, ma essenzialmente sul comunicare all’alunno cosa cominciare a fare da subito per migliorare, sapendo che egli potrà contare sul supporto costante dell’insegnante ed eventualmente anche dei compagni. E avendo ben chiaro che gli eventuali erori di percorso che potrà fare anche in futuro non saranno visti come il diavolo dall’insegnante, ma considerati step costitutivi di un normale processo di apprendimento. E perfino potenzialmente utili per migliorarlo, se ben “usati” didatticamente.
Il tutto, operato in una zona di crescita dell’allievo che sia oltre, ma mai troppo distante, dal suo livello attuale di preparazione culturale (la zona prossimale di sviluppo di cui parla Vygotskij). Altrimenti, non c’è molta speranza di crescita effettiva.
Senza queste attenzioni, la valutazione rischia non solo di non essere utile all’alunno ma, soprattutto se questi è in situazione di fragilità culturale e di bassa percezione di autoefficacia, di allontanarlo dal processo di apprendimento, in particolare lì dove egli non individua più alcuna situazione di controllo del suo progresso (“Non so neanche da dove dovrei cominciare per miglioare. No, in questa materia non sono bravo. Non ci riesco!”).
Come spiegare agli alunni che non è il voto a contare di più? Forrest Gump, il protagonista dell’omonimo splendido film, direbbe magari, a modo suo, che il voto “è come una scatola di cioccolattini”. La scatola contiene i cioccolattini (le informazioni per il miglioramento) in un unico e comodo luogo (di sintesi: il voto) ed è ciò che appare subito. Ma, normalmente, non mangiamo la scatola.