La valutazione scolastica, in questa precisa fase storica, è un’autentica follia, un’aberrazione pedagogica. Il giudizio sul grado di conoscenze e di competenze acquisite da uno studente è frutto di un processo dialettico e di una relazione quotidiana tra docente e discente.
Il voto è il coronamento di un percorso, la traduzione, mai esaustiva, in fattore numerico di una storia e di un volto umani.
Come si può pensare di ridurlo a un rapporto committente-prestatore d’opera? Aprire un’apposita finestra virtuale solo per gridarti quanto vali. Solo per darti la lettera scarlatta o appuntarti una spilla sul petto. È questo il messaggio che la scuola vuole veicolare ai ragazzi? Vogliamo dire loro che impieghiamo gran parte del nostro tempo ad arrovellarci su quale sia il congegno più utile per evitare che barino? È questo il senso, questo lo spirito della didattica a distanza?
Irrompiamo nelle loro case, violiamo la loro intimità domestica per l’insopprimibile e insopportabile bisogno di marchiarli a fuoco?
Non dovremmo, invece, prendere per mano tutti, per una volta davvero senza stratificazioni e gerarchie, e scortarli alla fine di questo segmento così travagliato della propria storia? È necessario essere accaniti e chirurgici docimologi e grigi burocrati? Non è, forse, questa un’occasione storica per recidere il tossico cordone ombelicale tra voto e saperi?
Per cestinare la logica nociva e mortifera del do ut des sulla quale oramai s’incardina la vita di molti, troppi tra docenti e discenti?
Per incoraggiare l’auto responsabilità, la crescita personale, l’imperativo morale e l’autogestione dei ragazzi?
Si potrebbe immaginare la scuola del futuro: fondata sulla cooperazione e non sulla competizione, sul disinteresse e non sul tornaconto, sull’essere e non sull’avere.
Enrico Bonelli
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