Ernesto Galli della Loggia si scusa con un rattoppo peggio dello strappo. Invece di proporre più risorse e idee per migliorare la “competenza”, e più ore di sostegno per non abbandonare a se stessi i ragazzi diversamente abili, che lui continua a chiamare “disabili”, ribadisce, per quelli più gravi – sarebbe interessante sapere quali sono per lui i più gravi – una separazione da quelli che lui chiama “normali”.
Per questo, se mi è consentito, vorrei porgere una domanda, ma senza l’ironia del mio intervento precedente. E, con me, la porgono anche i miei alunni, i miei colleghi, la DS, il personale ATA e insomma tutti coloro che, secondo lei, vivono nella menzogna e nell’indulgenza.
Ha mai provato, professore, la gioia di abbracciare e di sentire l’abbraccio di un ragazzo diversamente abile “grave”? Ha mai provato la gioia di andargli incontro mentre dal fondo del corridoio della scuola urla il suo nome e, a grandi falcate e grandi sorrisi, le viene incontro? Ha mai sentito la forza dirompente di un abbraccio furioso che non la farà dormire per una notte intera per il mal di schiena, ma la farà svegliare con il sorriso sulle labbra e la voglia matta di andare nuovamente a scuola per potersi prendere nuovamente quell’abbraccio?
Ecco, caro professor Galli della Loggia, provi quell’abbraccio “educativo” e, per una volta, si prenda la gioia di quella corsa, di quel sorriso e di quell’abbraccio come me li sono presi io, i miei colleghi, i suoi compagni e tutto il personale della scuola.
Così capirà il motivo dell’indignazione mia e di tutti quelli che nella mia scuola hanno letto il suo articolo e la replica che, in sostanza, ribadisce quanto da lei già scritto.
Quel ragazzino, ora uomo, si chiama Antonio, uno dei tanti alunni che sono stati un valore “educativo” e formativo aggiunto e non un peso per i compagni che lo adoravano e che lui adorava scambiandosi ogni giorno sorrisi e sguardi, l’aria della stessa classe che è poi la miniatura del mondo variegato che li attende.
Uno stare assieme che ha insegnato tanto anche a lui e a noi che lo adoravamo allo stesso modo e che, quando è uscito dalla scuola media, abbiamo pianto perché, se fosse stato possibile, l’avremmo bocciato non una ma cento volte per goderci fino alla pensione la gioia educativa di quell’abbraccio che ci rammentava che il mondo non appartiene solo a quelli che lei chiama “cosiddetti normali”.
Abbraccio che lei caro professore, è evidente da ciò che scrive, non ha mai provato. E mi spiace molto. Ma non per i tanti Antonio che le sono passati accanto e che avranno avuto altri abbracci. Mi spiace, e glielo dico senza ironia, soprattutto per lei.
Augusto Secchi
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