Fa discutere la vicenda di un bambino con disabilità di una scuola di Ladispoli sospeso per più di 20 giorni e riammesso in classe solo per decisione del TAR.
Ne parliamo con Raffaele Iosa, ex ispettore scolastico, dirigente tecnico presso il Ministero con incarichi legati proprio ai temi della disabilità e dell’inclusione.
Per capire meglio la questione dobbiamo fare qualche passo indietro e parlare innanzitutto del forte aumento certificativo in corso da 20 anni. In questo periodo gli studenti con disabilità sono triplicati e tre tipi di disabilità sono esplosi nel panorama clinico: l’autismo (un terzo dei certificati 104), l’ ADHD (disturbo dell’attenzione e iperattività), e il DOP (disturbo oppositivo provocatorio).
Si tratta di disabilità accomunate da una caratteristica, e cioè da “comportamenti problema” ovvero con comportamenti “anomali, spesso aggressivi e fortemente reattivi”.
E perché l’incremento delle certificazioni riguarda proprio queste forme di disabilità?
L’esplosione ha seguito la diffusione del DSM V, il classico manuale statunitense di psichiatria del 2012 che viene ormai seguito dalle pratiche diagnostiche dei paesi europei.
Autismo, ADHD, DOP sono da questo manuale particolarmente “medicalizzati”, ed hanno ottenuto un gradimento diagnostico prima del tutto assente.
Il fatto è che anche le basi scientifiche di queste diagnosi sono discusse. Non esiste una certezza genetica e non esistono neppure “cure” farmacologiche particolarmente condivise.
Stiamo ormai ritornando a modelli interpretativi ispirati ad un comportamentismo spinto, prevalentemente di base skinneriana, ed è esplosa parallelamente una neo-clinica (con molte strutture private agguerrite nel mercato della cura) con “tecnici terapeutiche” e “tecniche comportamentiste” che hanno una discreta efficacia nei comportamenti problemi, ma anche queste oggetto di discussione. E soprattutto un costo pesante per le famiglie.
E cosa succede ai bambini e alle bambine che hanno certificazioni di questo tipo?
Molto spesso c’è la tendenza ad “isolare” questi bambini e ragazzi anche perché “pericolosi” per i compagni di classe. Per loro domina quasi sempre la cosiddetta “copertura totale” (docente di sostegno + educatore comunale) in modo che mai siano lasciati “soli” in mezzo alla classe e ai docenti (diciamo così) “normali”.
Siamo cioè già verso un declino separativo, in cui si diffondono “aule h” e spazi separati.
Purtroppo su tutto questo, il dibattito scientifico e pedagogico è scarso, e quando si prova a farlo spesso accadono scontri.
Veniamo allora alla questione delle soluzioni “disclipinari”…
Per la verità si parla del caso di Ladispoli per l’abnormità della sanzione, ma il problema è più diffuso di quanto si pensi. Io stesso ricevo spesso segnalazioni del genere e molte ne leggo nei siti specializzati.
Si tratta però di capire se la “nota disciplinare” per un qualche comportamento non “corretto” sia utile o se, invece, non peggiori il quadro comportamentale del nostro studente con disabilità ADH, DOP o autistico.
D’altra parte le “note disciplinari” possono avere in gran parte lo stesso effetto anche nei ragazzi diciamo così non disabili: e cioè piuttosto che “aiutare a comprendere” il sé alunno/studente ed essere stimolato per comportamenti virtuosi, produrre uno stigma che aumenta le crisi e con questo più difficile l’inclusione personale.
Lei cosa ne pensa?
La pedagogia del merito che piace tanto alla destra che ci governa e che si sta facendo strada di destra nelle nostre aule dimentica un punto cruciale: punire non è mai curare, soprattutto se si ha a che fare con bambini e bambine.
Cosa bisognerebbe fare ?
Credo che si debba intervenire per sviluppare competenze più raffinate e serie di capacità inclusive per tutti i docenti coinvolti, sia per quelli di sostegno che per i curricolari.
Non per nulla sto lavorando con amici e colleghi sensibili al tema a proporre quella che abbiamo chiamato “cattedra inclusiva”, che nasce dalla necessità di formare intensamente tutti i docenti italiani anche e soprattutto a fronte dalle nuove sfide che la profonda mutazione socio-culturale e scientifica delle disabilità sta producendo nelle nostre scuole.
Lei vuol dire che il ricorso alle “note disciplinari” è legato anche alla formazione dei docenti?
Ne sono convinto. E sono anche sicuro che per “salvare” l’inclusione non abbiamo alternative: è necessario un cambio di passo con competenze diffuse ben diverse da quelle di oggi. Altrimenti meglio le scuole speciali: quelle non imbrogliano nelle finalità.
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Certo che è un paradosso, ma se non vogliamo tornare alle classi speciali dobbiamo davvero invertire la rotta.
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