“A colpi d’ascia. Legni, crete, storie a sud del Sahara” di Giovanni Maria Incorpora, Rubbettino, è uno di quei resoconti di viaggio, con straordinarie e illuminanti illustrazioni a calori racchiuse dentro a pagine alterne con la scrittura, che richiamano i grandi viaggiatori europei del Settecento in giro per il sud Italia, alla scoperta di quella civiltà, a lungo studiata e immaginata, e di cui ora essi scoprono l’essenza più intima, palpandone le vestigia, guardandone gli architravi sulle volute alte e snelle, osservandone le celate matriarche, esplorandone le più ancestrali locande di ispirazione.
In questo particolare testo di Incorpora c’è appunto l’Africa, indagata e svelata attraverso le sue arti visive, l’Africa su cui inciampò perfino la ricerca artistica di Picasso quando si imbizzarrì della ceramica, l’Africa non più vista attraverso l’occhio condizionato della letteratura, ma osservata con gli strumenti, più che antropologici, della esplorazione culturale meditata e attenta a studiare le sue più intime espressioni creative, impresse nei materiali che poi sono quegli stessi della più comune manipolazione nota agli artigiani-artisti del mondo: il legno, l’osso, l’avorio, la creta, ma anche il rame.
Così, al di là del Sahara e oltre il deserto, si viene a contatto con una umanità che da circa un secolo si è vista erigere confini e steccati, attraverso un libro cattivante e colto, e che narra quattro afriche condensate fuori dalle logiche della divisione politica, quattro aree geografiche descritte da una lunga peregrinazione compiuta dall’autore; un viaggio mistico all’interno delle segrete opere realizzate dagli artisti locali, dagli interpreti più sensibili di una cultura ancestrale e delicata, proprio perché ha inteso rappresentare il divino e l’umano, il tangibile e il misterico.
Gli antichi contesti culturali insomma su cui gli oscuri artisti forgiavano, alienanti e sacri, le divinità e il senso profondo della terra, la fertilità e la coscienza di quell’universo, indipendentemente della materia utilizzata. E pure dal fatto che a “un bacino etnico” non corrisponda per lo più mai una Nazione ma più etnie, mentre ciascun manufatto rappresenta una sorta di libro di storia e civiltà, un documento di quel particolare popolo, in accordo con un vecchio detto del Mali: ogni vecchio che muore è una biblioteca che brucia.
Perché, precisa Incorpora (che fra l’altro fra quadri, sculture e colori ha vissuto, essendo figlio del più famoso Salvatore), tali manufatti preferiscono rappresentare l’aspetto rituale, religioso, animistico, per cui diventano chiavistello per capire quel mondo e tutto ciò che ad esso appartiene. Documenti, atti, porzioni di vita, mentre un universo fatto di maschere, statue, reliquie, vasi, utensili, altari, urne racconta ciò che si agita al di là del velo del sensibile e pure dell’al di qua delle singole etnie. Perché nei manufatti è pure individuabile la schiavitù e i malefici dell’esistenza stessa, quella ultima soprattutto dei dissidi e dello sfruttamento, un segnale del quale può essere, pur rimanendo un mistero, la mancanza del sorriso in quasi tutte le opere fittili che rappresentano la figura umana.
L’antico Sudan occidentale, col Mali e il Niger; l’immenso Golfo e la Costa di Guinea, con la Nigeria e la Costa d’Avorio; l’Africa centrale con le foreste equatoriali, il Camerun e la Repubblica democratica del Congo; e infine la Savana con le culture del Ciad, del Congo e dell’Angola: queste le quattro aree dentro cui Incorpora cerca il senso di quel mondo, attraverso gli unici reperti in grado di raccontarlo, e non solo nei toni artistici e culturali in senso lato, ma anche dentro l’aspetto socio-religioso, ove si colloca soprattutto l’uomo-artista che ha saputo interpretare appieno quel “senso religioso trasmessogli da un animismo che è stato spesso l’essenza stessa della sua esistenza”.
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