I lettori ci scrivono

L’alleanza educativa passa anche attraverso il “patto” sulla mensa

Le modifiche allo Statuto delle Studentesse e degli Studenti, apportate con il Dpr 235/07 che ha introdotto il Patto educativo di corresponsabilità (art. 5-bis), sono state guidate dall’indefettibile presupposto che scuola e famiglia costituiscano “la risorsa più idonea” per la diffusione di una cultura dell’osservanza delle regole e del “rispetto degli altrui diritti” (nota 31 luglio 2008).
Ispirato al “contratto formativo” della carta dei servizi scolastici di cui al DPCM 7 giugno 1995, destinatari naturali del patto sono i genitori, su cui incombe il dovere di educare i figli (art. 30 Cost., artt. 147, 155, 317 bis c.c.), al fine di impegnarli sin dall’iscrizione “a condividere” l’azione educativa.

Tuttavia appare inefficace alla realizzazione dell’auspicata alleanza educativa il richiamo dei tre attori: scuola – genitori – studenti, alle reciproche responsabilità, laddove tale strumento pattizio costituisca non il risultato di un effettivo generalizzato coinvolgimento e di un procedimento ampiamente condiviso, ma solo una mera formalità da adempiere all’iscrizione.
Da qui la necessità di una innovazione.
Tra scuola e famiglia c’è profonda crisi di dialogo, testimoniata dalla cronaca quotidiana ed i conflitti finiscono per essere rimessi alle aule di un tribunale o alla forza…

Significativa è la perdurante difficoltà nel condividere un momento naturale ed aggregante come il tempo mensa, nel rispetto della corresponsabilità e quindi delle scelte delle famiglie, considerate piuttosto responsabili di una scorretta educazione alimentare laddove non vogliano aderire al servizio dell’ente locale scegliendo il pasto domestico.
Tanto è ritenuta deteriore tale opzione, che si preferisce parlare piuttosto e riduttivamente del “panino da casa”.

Così, dopo il diffuso contenzioso in sede civile a seguito della chiara sentenza della Corte di Appello di Torino n. 1049/2016 ed in attesa della pronuncia anche della Suprema Corte, nonostante i chiari principi di diritto espressi dalla summenzionata sentenza, spetterà al Consiglio di Stato, all’udienza fissata al 5 luglio p.v., decidere il cautelare ed il merito dell’appello proposto dal Comune di Benevento avverso la sentenza del TAR Campania N. 1566/2018, che ha annullato il regolamento emanato dall’ente locale che sanciva l’obbligatorietà del servizio di ristorazione scolastica (art.1) con conseguente onere da parte del genitore non aderente di prelevare lo studente per il pranzo e riportarlo “all’inizio dell’orario delle attività pomeridiane secondo le indicazioni impartite dal dirigente scolastico” (art. 3).

Il TAR ha ritenuto che la asserita preoccupazione che il consumo di un pasto domestico nei locali scolastici “potrebbe rappresentare un comportamento non corretto dal punto di vista nutrizionale, oltre che una possibile fonte di rischio igienico-sanitario” non possa legittimamente “fondare le disposizioni avversate”, anche perché il regolamento comunale non appare strumento idoneo e sufficiente di per sé ad escludere a priori la “sicurezza igienica degli alimenti esterni”, che va piuttosto contestualizzata e valutata caso per caso.

Rileva il Tribunale amministrativo che invece “non appare inibito agli alunni il consumo di merende portate da casa, durante l’orario scolastico, ponendosi anche per queste –a tutto concedere- la eventuale problematica del rischio igienico- sanitario”. È chiaro che con tale asserzione non si vuole certo interdire l’ingresso a scuola delle merendine, ma solo evidenziare la palese contraddizione che emerge dalle condotte e dall’affermazione di un presunto rischio sanitario per nulla dimostrato e comunque che non può essere escluso neanche dal regolamento.

Premesso che il tempo mensa è parte integrante del tempo scuola, realizzando un continuum tra attività mattutine e pomeridiane in orario curricolare, per cui non appare legittimo privarne chi l’ha scelto, la sentenza del TAR Campania ha ribadito il pacifico principio (confermato da ultimo dal Dlgs 63/2017) che la ristorazione scolastica è un servizio pubblico locale a domanda individuale, attivabile a richiesta degli interessati, quindi non obbligatorio né per l’ente né per gli utenti ed ha rilevato come l’aggravio ed il disagio logistico per le famiglie, laddove costrette al ritiro del proprio figlio in caso di mancata adesione al servizio, non sia efficace a determinare un ripensamento.
Traspare comunque che, in considerazione della normata autonomia scolastica, tali questioni potrebbero essere risolte efficacemente a livello di singola istituzione attraverso il coinvolgimento delle componenti.

E mentre si attende si esprimano i più alti gradi della giurisdizione civile ad amministrativa l’impugnata sentenza del Tar Campania ci ricorda che già la nota MIUR, n. 348 del 3 marzo 2017, in considerazione del riconoscimento giurisprudenziale del diritto a consumare il pasto domestico negli stesso locali destinati alla refezione, aveva fornito indicazione, concordata anche con il Ministero della salute, “di adottare, in presenza di alunni o studenti ammessi a consumare cibi preparati da casa, precauzioni analoghe a quelle adottate nell’ipotesi di somministrazione dei cd pasti speciali”, raccomandando ai Direttori degli uffici scolastici regionali di “mantenere con le scuole un confronto costante e produttivo supportandole affinché nella gestione dell’erogazione del servizio per gli aspetti di competenza, non si discostino dalle pronunce della Magistratura, (…) così come pare opportuno favorire e sostenere l’interlocuzione serena e costruttiva con le famiglie, raccogliendone ove possibile, segnalazioni e richieste al fine di contemperare le opposte esigenze di tutte le alunne e gli alunni”.

Senza questo dialogo, che invece tuttora evidentemente manca, il patto è violato.
Senza il rispetto delle scelte, così come avviene normalmente in caso di menù alternativi, non c’è alleanza.
Ed è negato il valore del tempo mensa come momento educativo in cui si consuma insieme il proprio pasto, anche nel rispetto delle differenze, giacché “Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali” (don Milani: Lettera a una professoressa ).
Dunque è forse legittimo pensare che il problema prima che giuridico sia relazionale.

Poiché siamo incapaci a quanto pare di condividere soluzioni fuori dalle aule di un tribunale, non resta che attendere le ulteriori pronunce della giurisprudenza. Ma non è su queste che si costruisce l’alleanza.

Cinzia Olivieri

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