Una scuola che sospende un’insegnante che ha fatto recitare un’Ave Maria in classe e promuove con ottimi voti e nove in condotta gli alunni che sparano con pallini di gomma un’insegnante durante la lezione si può ancora definire scuola nel senso millenario del termine? No!
Penso davvero di no, penso sia un’altra cosa. Che cosa ancora non so, ma in questa risposta vorrei essere aiutato dai colleghi dirigenti e docenti ancora in servizio. Io personalmente mi vergognerei di essere parte del corpo docente che ha fatto si che tali circostanze si verificassero nell’una e nell’altra scuola.
Sempre che i fatti siano davvero andati come ci sono stati raccontati da una stampa che molto spesso deroga, purtroppo, alla sua deontologia. Pure son convinto che a questo attacco gli interessati avrebbero qualcosa da ribadire in difesa del loro comportamento, magari sentendosi pure offesi dalle mie affermazioni. Esattamente come pensano di aver ragione i genitori del ragazzo che ha accoltellato la docente e che invece è stato bocciato e allontanato dalla scuola, i quali già hanno pronto il ricorso al Tar.
Provo a immaginare le obiezioni di tutti costoro. Nel caso dell’insegnante che ha fatto recitare l’ave Maria, si dirà, come al solito, che la scuola è laica e lì l’argomentazione si autodistrugge da sola perché la definizione di laicità citata dallo stesso Draghi, prendendola da una sentenza del Consiglio di Stato dice a chiare lettere che laicità non significa indifferenza verso il fenomeno religioso, diciamo anzi che, se questo fosse la laicità, sarebbe cieca fede solo nell’uomo e in un relativismo che a sua volta, proprio perché tale, non potrebbe affermare altro che il suo silenzio su tutto, quindi anche nient’altro insegnare se non il nulla. E questo lo dice Platone e non solo il sottoscritto.
In più in una società come la nostra fortemente radicata nella religione cristiana anche una messa a scuola per chi la vuole con attività alternativa per coloro che proprio per intolleranza congenita non la sopportassero, sarebbe più che legittima. Riguardo al secondo caso invece l’argomentazione quale potrebbe essere? Solo una di quelle alla Littizzetto e cioè che, in un certo senso, l’insegnante se l’è meritata perché non ha saputo interessare, coinvolgere i ragazzi, quindi essere autorevole ai loro occhi.
Un’altra argomentazione potrebbe essere la vecchia più che discutibile affermazione che la condotta non deve influire sul profitto; ma se così fosse stato e non è il caso – e anche se lo fosse stato non avrebbe comunque salvato la faccia della scuola – in condotta si sarebbe potuto mettere sei giusto per non bocciare i ragazzi, non certo nove.
Vorrei far presente a chi dovesse addurre tali argomentazioni quanto segue.
Uno, il rispetto per cui si fanno a scuola corsi spesso discutibili in nome di un’accoglienza senza se e senza ma, dovrebbe esser la prima e forse più facile cosa da insegnare agli allievi, a meno che non ci si allei coi ragazzi contro un ben preciso insegnante che forse non si allinea ai sotterranei diktat della scuola e quindi si insegni che tutti devono essere rispettati tranne quelli che non si allineano, contraddicendo così all’accoglienza di tutti senza se e senza ma e allo slogan molto in voga nelle scuole, e non solo, che recita: “la diversità è una ricchezza da accogliere e includere”.
Due, il rispetto del ruolo del docente va sempre tenuto presente, perché come non ci si può sottrarre alla minorità legalmente fino ai diciotto anni e quindi alla dipendenza dalla famiglia, così non ci si può sottrarre alla dipendenza dalla scuola nella formazione culturale fino alla maggiore età. A meno che la famiglia o la scuola non si manifestino palesemente indegne di svolgere il loro ruolo. Ma ciò, se esiste ancora la legge e soprattutto se la si rispetta, avviene dopo seri e comprovati accertamenti legali. Allora, anche qualora un insegnante sia ritenuto incapace da qualche o da molti alunni o genitori o docenti o persino da una scuola intera, la legge vuole che esso sia integralmente rispettato, almeno per il suo ruolo, fino a quando non sia avvenuto un reale e comprovato accertamento della sua incapacità.
E comunque, anche qualora fosse, dopo legittimo procedimento, ritenuto tale, resterebbe il rispetto integrale per la sua dignità di uomo. La scuola dovrebbe essere il luogo preposto a far comprendere almeno queste verità basilari ai discenti. Ma pare questo accada sempre meno.
Perché? Le cause sarebbero troppo lunghe per essere affrontate in un semplice intervento come questo. Ma, in fondo, chi come me a diciotto anni si è imbattuto nella contestazione e ne ha conosciuto tutti i pregi e soprattutto tutti i difetti e li ha poi potuti sperimentare in questi ultimi cinquant’anni nella scuola in veste prima di docente e poi di dirigente, sa che le radici di questo discorso partono da lì.
Il conflitto apertosi allora tra nuove generazioni e vecchie non è mai stato composto, complice una politica sempre più spesso irresponsabile, nel modo in cui si sarebbe dovuto e cioè con una collaborazione, anzi una vera e propria Alleanza educativa tra Adulti (Scuola e Famiglia) e Giovani consapevoli di esser soggetti educandi.
Alleanza che sulla carta è sbandierata e firmata tutti gli anni in tutte le scuole (PEC), ma è altrettanto sistematicamente, tragicamente inattesa nella realtà. Così, alla fine, perché meravigliarsi che i genitori, e vengo al terzo caso di tragica attualità, vogliano a tutti i costi difendere il figlio che ha accoltellato l’insegnante? E’ solo il manifestarsi estremo di ciò che si cerca di nascondere dietro i PEC: la reale, totale, sostanziale conflittualità tra Scuola e Famiglia. Ormai i genitori nella realtà sono sempre più spesso solo o vassalli o nemici della Scuola, non certo alleati alla pari, e così i loro figli.
E questo non può che confermare, almeno per me – spero qualche collega in servizio mi smentisca – che siamo alla frutta. Si, se gli Adulti (Famiglia e Scuola) non ritroveranno il coraggio di vivere fino in fondo il proprio ruolo e così gli Studenti, credo la Scuola o almeno l’idea di scuola che dall’Antica Grecia ad oggi la sostanzia, sia davvero alla frutta.
Giuseppe Bruno
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