Quando mi viene voglia di parlare male dell’epoca attuale, ripenso alle foto di settant’anni fa. Alle mostre fotografiche che visito nelle sagre estive, con i loro aspetti ricorrenti: l’immensa tristezza delle persone, nell’immediato dopoguerra, l’abbrutimento dovuto all’ignoranza, alle sofferenze patite … L’aspetto fiero, dominatore del capofamiglia, l’immancabile sigaretta in mano, la rituale postura rigida …
Quelle giovani spose, invecchiate precocemente, che non rivelano nello sguardo il miraggio di una storia d’amore, ma appaiono intimorite, rassegnate, come di fronte ad un destino sventurato ed ineluttabile: la durezza della vita, i rischi del parto, l’incontrastata autorità maschile … Bisogna arrivare agli anni sessanta, se vogliamo scorgere, per la prima volta, sul volto dei ragazzi, una luce che è aspettativa di qualcosa di bello, e si trasforma, man mano che i capelli si allungano ed i pantaloni diventano a zampa di elefante, in sorriso sognante, un poco delirante.
Anche oggi, non mancano, nei nostri giovani, i volti euforici, accanto a quelli disorientati. Tanti appaiono, invece, annoiati, ostili. In molti casi, sembra tornata la depressione. Chiediamoci. Perché questo destino? Raggiungere il culmine della parabola per poi tornare a scendere di nuovo? Perché la linea del progresso è sempre destinata a curvarsi?
Ma c’è una cosa alla quale non sempre riflettiamo. La gran parte delle trasformazioni è avvenuta negli ultimi duecento anni. E, soprattutto, i cambiamenti sono divenuti vorticosi e decisivi proprio negli ultimi due decenni, durante la nostra vita. E’ in questi ultimi anni, a cavallo del duemila, quasi a nostra insaputa, mentre eravamo intenti a pensare ad altro, che è accaduta quella che forse è la più grande trasformazione di tutti i tempi: la rivoluzione informatica, la comunicazione globale e ininterrotta che si attua con il cellulare informatico … Da quanto l’uomo ha messo il web nel cellulare, è sempre connesso. E porta costantemente con sé un archivio sconfinato d’informazioni, immagini, foto, musica …
Dicono che la rete ci sta trasformando. Che è “un” mondo il quale, sovrapponendosi a quello reale, è diventato “il” mondo. Dicono che siamo passati dalla “prossimità spaziale”, propria dell’ambiente geografico, a quella “elettronica”, che non ha confini ed è scelta in base alle nostre preferenze. Dicono che i social stanno trasformando il nostro modo di rappresentare il mondo e che i giovani non pensano più per concetti ma per immagini. Che siamo regrediti dall’homo sapiens all’homo videns. E che tale stile comunicativo ha la responsabilità di creare persone con grande capacità emotiva, ma prive di centro interiore, insicure e povere d’identità. Che quando il desiderio di connessione virtuale diventa ossessivo, l’individuo si isola, interrompendo la reale interazione sociale. Che i social possono disturbare i modelli di riposo, di silenzio e di riflessione, necessari per un sano sviluppo umano. Che la comunicazione elettronica favorisce la perdita del senso della realtà, ci fa abitare in un mondo virtuale, caratterizzato da tempo e spazio irreali. E che, soprattutto, ci rende incapaci di passare dal fenomeno (ciò che appare) al fondamento (le domande di senso).
Una cosa, però, è certa. Indietro non si torna. E forse nessuno vorrebbe veramente tornarci. La rete ha dilatato il nostro orizzonte di esistenza, ponendoci di fronte uno spettro di possibilità infinite. Certo, bisogna potenziare la capacità critica di cogliere l’ambivalenza dei social. Deve essere la nostra maturità a decidere se il tempo speso sulla tastiera digitale può essere meglio utilizzato nel dialogo familiare, nella socializzazione, nella natura, nello studio, nella riflessione … Per i passaggi epocali, non ci sono ricette pronte, ma sfide di pensiero e di paziente sperimentazione.
Luciano Verdone
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