Come convincere uno studente svogliato a studiare? L’apprendimento è un processo assai complesso, nel quale tra studente e insegnante entrano in gioco, non solo aspetti contenutistici, ma anche relazionali ed affettivi.
Non tutti possiedono il desiderio di apprendere, non tutti hanno voglia di sfogliare un libro per il puro piacere di leggere o per imparare qualcosa di nuovo. È necessario, intanto, un adeguato sviluppo mentale che oltre ad intendersi l’insieme dei processi di crescita del cervello consiste anche in una correlata evoluzione psichica.
È quindi necessaria la figura di un adulto, genitore o insegnante, che si preoccupa di trasmettere delle informazioni e contribuisce a costruire un sapere. L’adulto di riferimento deve però possedere una imprescindibile qualità professionale che è l’interesse nei confronti del rapporto umano e per la realizzazione dell’altro. Poi viene l’affettività che è un segno evidente dell’interesse.
Questa pedagogia dinamica permette di risolvere le difficoltà scolastiche. Essa è la soluzione ai disturbi dell’apprendimento, cosa questa che contrasta con quanto ritenuto comunemente e cioè con l’impossibilità di superare tali problematiche come, ad esempio, la discalculia o la dislessia.
Nella scuola passa un’idea assistenzialista cioè, appunto, del “prendersi cura” dei ragazzi con determinati difficoltà. Studenti che, nell’idea psico-pedagogica collettiva, vengono consolati e tollerati ma considerati comunque incapaci anche a pensare e di costruire il loro futuro. E, così facendo, questo atteggiamento nei loro confronti diventa totale indifferenza e negazione, disinteresse e anaffettività. Ciò che lo studente non può fare da solo, senza una relazione pedagogica, è la capacità di sperimentare piacere in ciò che fa, di provare interesse.
L’apprendimento anaffettivo non permette agli studenti di provare piacere nello studio, e sviluppare così un’esigenza del sapere. Certo le occasioni che portano al disinteresse e alla svogliatezza non mancano.
Spesso capita che i ragazzi perdano il filo durante le lezioni cosa che li scoraggia nel tentare un recupero autonomo attraverso uno studio più attento ed intenso. Anche le troppe assenze conducono ad un medesimo risultato.
L’impatto poi con materie nuove, come si verifica al triennio delle superiori, può ulteriormente provocare disagio per la difficoltà ad entrare in affinità con i nuovi argomenti. Se a questo si aggiunge il fatto che i ragazzi alle superiori hanno talmente tante distrazioni in grado di distoglierli dal concentrarsi sullo studio, non ultimi telefonini e social e la cultura alternativa che essi promuovono, il risultato finale è più che definito.
In ultima analisi i nostri ragazzi non hanno bisogno di una scuola assistenzialista e anaffettiva pronta a soddisfare il bisogno di “successo scolastico” ma non a promuovere meglio il più sano bisogno formativo. Istituzioni che appaiono sempre più impegnate in una sorta di lotta tribale tra poveri per l’accaparramento della residua utenza attraverso l’offerta di numerosissime attività “formative” alternative che spesso nascondono, in realtà, una certa sofferenza per una didattica stantia ed omologata su metodologie disaccoppianti, dal punto di vista pedagogico, il binomio docente-discente. I nostri ragazzi vogliono da parte nostra, adulti di riferimento, regole certe dal punto di vista didattico-pedagogico che devono essere fissate nel patto formativo che ogni singolo insegnante propone ai propri alunni. Regole che se vengono violate da entrambe le parti devono prevedere delle reali conseguenze.
Servanda pacta sunt direbbero i latini con tono di ammonizione! Ma se il perseverante non impegno e il convinto non interesse non viene poi sanzionato a fine anno crolla ogni impostazione formativa dell’insegnamento. Il rispetto reciproco tra docente e discenti si istaura quando gli alunni riconoscono la serietà professionale del docente. Serietà che individuano nell’ardore che mette nella propria attività didattica e nell’importanza formativa che dà alla valutazione. In tal caso essi rispondono con un vero impegno nello studio della disciplina.
L’insegnante che svolge così il suo lavoro lo rivolge esclusivamente ai suoi alunni verso i quali dimostra necessariamente interesse e affettività e non può non valorizzare di conseguenza ogni loro piccolo sforzo e progresso formativo. Ma sempre nell’ottica del do ut des didattico. Questo insegnante è orgoglioso dei propri ragazzi, e la relazione docente-discente diventa sinergica! Ma se non c’è interesse per i nostri ragazzi e si offusca la loro etica e la loro coscienza con promozioni garantite, arido assistenzialismo, appiattimento ed omologazione che non riesce ad esaltare le specifiche attitudini dei singoli, nonché l’impegno particolare che alcuni di loro possono mettere, allora questo tipo di scuola non serve più e gli insegnanti devono fare un serio esame di coscienza.
Giuseppe D’Angelo
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