In molte scuole medie, per gli alunni delle classi terze che hanno scelto un liceo di stampo tradizionale, scatta dopo Natale il progetto di introduzione e avviamento alla lingua latina: un monte ore quasi sempre modesto, sicuramente troppo esiguo per la reale comprensione della materia,ma tuttavia sufficiente ad orientare gli studenti nelle caratteristiche generali di questa lingua tanto discussa e temuta.
I ragazzi imparano almeno come si legge, che cos’è una declinazione, che cos’è il neutro e come si coniugano i verbi. Ma ogni volta, ormai, la domanda sorge spontanea: serve ancora? E se serve, fino a che punto? Certo, il contrasto stride forte quando dall’aula adiacente a quella di latino proviene la voce del docente più esperto nel digitale che prepara, con un altro gruppo di alunni, sofisticati progetti interdisciplinari su piattaforme sperimentali.
Il vecchio e il nuovo si fronteggiano, o meglio l’obsoleto e le avanguardie concorrono insieme in una sorta di certame (ma senza alcun premio in palio, s’intende) dove si dà già per scontato chi verrà eliminato. E’ sempre più difficile, ormai, nel mondo del “tutto e subito” formulare la risposta convincente da dare a generazioni di studenti alle prime armi che ti pongono la consueta domanda
”Perché dobbiamo studiare latino?” Inutile nascondercelo, questa risposta ormai non c’è più, non potrà più reggere la concorrenza con chi ci dimostra ogni giorno con prove tangibili che l’informatizzazione ha creato il migliore dei mondi possibili. Eppure…
Eppure, dietro a queste critiche mosse dagli studenti di oggi alle “lingue morte”, è inevitabile per noi,generazione della retroguardia, sentire con amarezza un vuoto incolmabile:un vuoto di sensibilità,di sentimenti, prima ancora che di cultura. Risulta quasi impossibile spiegare ai giovanissimi che le delusioni d’amore non sono una loro prerogativa, ma che qualcuno, di nome Catullo, le aveva già sapute esprimere con parole attualissime in cui essi stessi potrebbero ritrovarsi.
Che tristezza non potergli far provare le stesse emozioni che provammo noi leggendo per la prima volta Orazio, e fargli scoprire che l’espressione carpe diem è l’ante litteram di tante frasi inflazionate che girano oggi sui social…… “Se vado al mercato a comprare frutta e verdura mica mi serve il latino”, si sente obiettare comunemente “ma se sto all’estero mi serve l’inglese”.
Già; ma loro ignorano che anche l’inglese, di cui oggi nessuno può giustamente fare a meno, è una lingua più “latina” di quanto si possa immaginare: bisogna almeno dirglielo che in inglese parole come mother e father sono in tutta Europa le più vicine al latino mater e pater, e che della Britannia conquistata da Giulio Cesare è rimasto più di qualcosa…
Probabilmente non stiamo vivendo nulla di nuovo: forse,se esaminiamo i corsi e i ricorsi storici, si tratta solo di una nuova querelle des anciens et des modernes.
Ma c’è da riflettere sul fatto che chiunque, in passato,abbia voluto distruggere il vecchio per edificare il nuovo, era in realtà intimamente a conoscenza di quel “vecchio”: lo aveva studiato, elaborato e metabolizzato a tal punto da evidenziarne luci ed ombre, virtù e limiti. E forse, inconsapevolmente, sapeva che per quanto potesse distruggerlo, se ne sarebbe portato dietro l’eredità.
Oggi, invece, le nuove generazioni rischiano di non ereditare più nulla e di costruire su un terreno troppo povero di fondamenta: cerchiamo, finché è possibile, di evitarlo.
In molte scuole medie, per gli alunni delle classi terze che hanno scelto un liceo di stampo tradizionale, scatta dopo Natale il progetto di introduzione e avviamento alla lingua latina: un monte ore quasi sempre modesto, sicuramente troppo esiguo per la reale comprensione della materia,ma tuttavia sufficiente ad orientare gli studenti nelle caratteristiche generali di questa lingua tanto discussa e temuta.
I ragazzi imparano almeno come si legge, che cos’è una declinazione, che cos’è il neutro e come si coniugano i verbi. Ma ogni volta, ormai, la domanda sorge spontanea: serve ancora? E se serve, fino a che punto? Certo, il contrasto stride forte quando dall’aula adiacente a quella di latino proviene la voce del docente più esperto nel digitale che prepara, con un altro gruppo di alunni, sofisticati progetti interdisciplinari su piattaforme sperimentali. Il vecchio e il nuovo si fronteggiano, o meglio l’obsoleto e le avanguardie concorrono insieme in una sorta di certame (ma senza alcun premio in palio, s’intende) dove si dà già per scontato chi verrà eliminato.
E’ sempre più difficile, ormai, nel mondo del “tutto e subito” formulare la risposta convincente da dare a generazioni di studenti alle prime armi che ti pongono la consueta domanda ”Perché dobbiamo studiare latino?” Inutile nascondercelo, questa risposta ormai non c’è più, non potrà più reggere la concorrenza con chi ci dimostra ogni giorno con prove tangibili che l’informatizzazione ha creato il migliore dei mondi possibili. Eppure…
Eppure, dietro a queste critiche mosse dagli studenti di oggi alle “lingue morte”, è inevitabile per noi,generazione della retroguardia, sentire con amarezza un vuoto incolmabile:un vuoto di sensibilità,di sentimenti, prima ancora che di cultura.
Risulta quasi impossibile spiegare ai giovanissimi che le delusioni d’amore non sono una loro prerogativa, ma che qualcuno, di nome Catullo, le aveva già sapute esprimere con parole attualissime in cui essi stessi potrebbero ritrovarsi.
Che tristezza non potergli far provare le stesse emozioni che provammo noi leggendo per la prima volta Orazio, e fargli scoprire che l’espressione carpe diem è l’ante litteram di tante frasi inflazionate che girano oggi sui social…… “Se vado al mercato a comprare frutta e verdura mica mi serve il latino”, si sente obiettare comunemente “ma se sto all’estero mi serve l’inglese”.
Già; ma loro ignorano che anche l’inglese, di cui oggi nessuno può giustamente fare a meno, è una lingua più “latina” di quanto si possa immaginare: bisogna almeno dirglielo che in inglese parole come mother e father sono in tutta Europa le più vicine al latino mater e pater, e che della Britannia conquistata da Giulio Cesare è rimasto più di qualcosa.
Probabilmente non stiamo vivendo nulla di nuovo: forse,se esaminiamo corsi e i ricorsi storici, si tratta solo di una nuova querelle des anciens et des modernes.
Ma c’è da riflettere sul fatto che chiunque, in passato,abbia voluto distruggere il vecchio per edificare il nuovo, era in realtà intimamente a conoscenza di quel “vecchio”: lo aveva studiato, elaborato e metabolizzato a tal punto da evidenziarne luci ed ombre, virtù e limiti. E forse, inconsapevolmente, sapeva che per quanto potesse distruggerlo, se ne sarebbe portato dietro l’eredità.
Oggi, invece, le nuove genera-zioni rischiano di non ereditare più nulla e di costruire su un terreno troppo povero di fondamenta: cerchiamo, finché è possibile, di evitarlo.
Nadia Ubaldi
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