Mille e quattrocento euro dopo una laurea in ingegneria meccanica, un lavoro da otto anni in una multinazionale, con un affitto, le spese per andare ogni tanto a trovare i genitori in Calabria.
È una delle frasi-chiave di una lettera, pubblicata qualche settimana fa da Econopoly, a sua volta pubblicata sul blog di Alessandro Capocchi, associate professor of Business Economics all’Università di Milano Bicocca.
La lettera parla del colloquio lavorativo svolto dall’accademico con un giovane ingegnere meccanico del Sud, laureato all’Università di Pisa, per valutarne la possibile assunzione in una piccola azienda familiare toscana, operante nel settore della meccanica specializzata.
“L’incontro – si legge nella lettera – è stato fatto a tarda sera per consentire all’ingegnere di terminare la propria giornata lavorativa presso una multinazionale straniera operante nello stesso settore e raggiungerci”.
“L’ingegnere – trentasei anni, calabrese, trasferito in toscana per studiare all’Università di Pisa – si presenta con fare modesto e mentre racconta all’imprenditore con tecnicismi lontani dalle mie competenze io non riesco a non leggere nella sua voce e nel suo racconto la storia di tantissimi giovani italiani e di tantissime famiglie. Un ragazzo che lascia la propria regione e la propria famiglia a diciotto anni per una laurea molto impegnativa e sicuramente non facile da conseguire. Si laurea a pieni voti e subito inizia a lavorare sempre lontano dalle proprie origini e portando con sé l’orgoglio di chi, consapevole del sacrificio dei propri familiari, deve conquistare una posizione lavorativa, deve conquistare e afferrare il proprio futuro”.
“Lo guardo con ammirazione – dice il selezionatore – ben conoscendo le difficoltà che la laurea in ingegneria meccanica presenta: vedo in lui l’eccellenza italiana, l’eccellenza che tutto il mondo ci invidia e vedo in lui tanta Italia non solo quella del sud, della Calabria, ma l’Italia di tantissime famiglie che ancora oggi sostengono con grandi sacrifici i propri figli affinché possano studiare e tramite la laurea conquistare un lavoro. Vedo nei suoi occhi gli occhi di tanti miei studenti che da tutta Italia “salgono” a Milano per costruirsi e cercare un futuro”.
Al ragazzo, durante il colloquio, si chiede quale posizione retributiva abbia “nella multinazionale per cui lavora da quasi otto anni. L’ingegnere con la propria semplicità ci guarda sorridendo e risponde che guadagna un netto mensile di euro mille e quattrocento con tredici mensilità. Restiamo tutti in silenzio”.
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Per il selezionatore, “non può essere possibile. Penso subito – prosegue la lettera – a quanto potrebbe guadagnare se andasse in Francia, in Germania o nel Regno Unito per non considerare gli Stati Uniti. Non penso solo a lui, ma a tutte le famiglie che investono i propri risparmi per i propri figli e ai ragazzi che devono decidere cosa studiare, dove iscriversi, dove vivere e dove lavorare. A tutti coloro che lasciano ogni giorno la propria città per cercare che cosa?”
La condizione del giovane 36enne, a pensarci bene, non è molto diversa dai tanti docenti della scuola pubblica italiana, specializzati e abilitati all’insegnamento: molti di loro, forti di una preparazione decisamente sopra la media, hanno deciso di intraprendere la professione di insegnante non per ripiego ma per scelta. In tanti, lo testimoniano le lettere che riceviamo, fanno l’insegnante perché credono in questa professione. Nell’importanza di trasmettere agli altri quello che sanno.
Come in tanti, soprattutto con la Buona Scuola, come l’ingegnere 36enne, hanno dovuto spostarsi di città e caricarsi di spese, per i trasporti e l’alloggio, lontani dai loro cari.
E lo Stato che fa per agevolare questo preziosissimo compito? Questa enorme responsabilità? Dà loro la stessa cifra che mediamente guadagna il brillante ingegnare meccanico laureato in una delle prime università d’Italia. Eppure, entrambe le categorie hanno investito tanto nella formazione. Non ricevendo, dal sistema lavorativo, alcun beneficio. Né economico, perché guadagnano in media meno di altri, né sociale.
Sono considerazioni che dovrebbero fare, speriamo, anche coloro che a breve avvieranno la campagna elettorale, in vista delle elezioni politiche del prossimo anno. Un Paese moderno deve trovare le condizioni per valorizzare al massimo chi investe nello studio, si specializza e trova un’occupazione. Iniziando da chi gli ha permesso di acquisire le competenze.
Perché, se è vero che la cultura non ha prezzo, è altrettanto vero che vi investe non può essere penalizzato. È un concetto che all’estero conoscono bene. In Italia, invece, continua a valere la regola del rimando a tempi migliori. Forse, anzi senza forse, è ora di dire basta.
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