Abbiamo gli insegnanti più vecchi d’Europa: secondo l’ultima rilevazione OCSE, il 59% dei docenti ha più di 50 anni. Inoltre, come risulta dagli esiti delle visite mediche collegiali per l’inidoneità al lavoro, da tempo gli insegnanti italiani hanno il triste primato, rispetto ad altri lavoratori, della maggior frequenza di malattie oncologiche e malattie nervose gravi.
È evidente che, date tali premesse, il rischio di contagio da Coronavirus diventa, per i lavoratori della scuola, particolarmente pesante.
La situazione è ben nota – quindi, vista l’imminente riapertura delle scuole, una delle preoccupazioni più serie che toccavano a chi dirige il settore, avrebbe dovuto riguardare la sorte lavorativa di docenti ed ATA in situazione di fragilità.
Non avevamo dubbi che a settembre non sarebbe accaduto nulla di buono, poiché, dal nostro osservatorio sindacale, avevamo seguito passo passo ciò che era accaduto ai tempi dell’Esame di Stato.
Allora i docenti che avevano richiesto di lavorare “a distanza” si erano trovati spesso, troppo spesso, i bastoni tra le ruote, anche se le norme al tempo in vigore garantivano loro di poter lavorare a distanza qualora ce ne fossero i presupposti. Tra questi presupposti risultava l’età superiore ai 55 anni (si veda documento INAIL dell’aprile 2020).
Ma i dirigenti scolastici, quegli stessi che ora sono tanto preoccupati per le loro responsabilità, non hanno certo facilitato la strada ai docenti che avrebbero preferito, per ragioni di salute, non tornare nelle aule.
Era quindi facilmente immaginabile che i mesi estivi, con l’epidemia fortunatamente in calo, non avrebbero portato notizie positive per i lavoratori fragili. Infatti, i nuovi interventi sono all’insegna delle restrizioni. Tanto per iniziare, l’Istituto Superiore di Sanità ha depennato, per i lavoratori della scuola, l’età come fattore autonomo di rischio ed ora la nota 1585 dell’undici settembre 2020, firmata dal capo dipartimento Marco Bruschi, fornisce ulteriori chiarimenti, ponendosi in continuità con la circolare interministeriale (Ministero del Lavoro e Ministero della Salute) dello scorso 4 settembre.
In sette pagine piuttosto dettagliate viene ripresa la definizione di “lavoratore fragile” e vengono spiegate le procedure, abbastanza macchinose, che portano a definire tale un lavoratore.
Il testo inizia con ottimi presupposti e dichiara che tutto è pensato “ai fini della massima tutela della comunità educante”. Subito dopo, però, il tono è minaccioso: si deve “prevenire ogni forma di abuso”. Detto così, non suona bene, poiché adombra il sospetto che gli insegnanti siano scansafatiche cronici. Quale modo migliore, peraltro, per “prevenire ogni forma di abuso”, che rendere assai difficoltoso e svantaggioso il farsi catalogare come “lavoratore fragile”?
In primo luogo basta mettere tra parentesi il fatto che la scuola, ancorché sull’ “educante” si possa nutrire qualche dubbio è, a tutti gli effetti una comunità e, in quanto tale, terreno privilegiato di propagazione del contagio in caso di epidemia.
Dunque, il medico competente (o chi per esso) dovrà stabilire se il lavoratore è idoneo, oppure è “idoneo con prescrizioni” o se si può inserire nella categoria della inidoneità temporanea in relazione al contagio.
Si evince, da questo gradus ad Parnassum che, per essere definito “fragile” il lavoratore deve stare piuttosto male. Quale è la sorte del “temporaneamente inidoneo”? Se ritiene, potrà essere occupato in altre mansioni, purché presenti celere domanda di utilizzazione (“senza indugio” – sic!).
Non si illuda, però, il docente: nel caso in cui venisse assegnato ad altro incarico, il Direttore dell’USR competente avrà cura “di riportare l’orario di servizio a 36 ore settimanali, come previsto dal CCNI Utilizzazione inidonei”. Altrimenti, se non presenta domanda in tutta fretta, dovrà usufruire “dell’istituto giuridico dell’assenza per malattia”.
Più o meno la stessa sorte tocca agli ATA; tra essi particolarmente sfortunati i collaboratori scolastici, per i quali non è facile immaginare il lavoro a distanza.
Le sette pagine propongono procedure che appaiono lineari soltanto sulla carta; soprattutto, proponendo di mettere in malattia il lavoratore “temporaneamente inidoneo” dimenticano di tener conto che il periodo di malattia non è infinito.
Per gli assunti a tempo indeterminato, dopo 9 mesi scatta, per tre mesi, la riduzione stipendiale al 90%, che diviene al 50% nei successivi 6 mesi.
Poi, esaurito il cosiddetto “periodo di comporto”, possono essere concessi ulteriori 18 mesi a richiesta del lavoratore, senza retribuzione alcuna. In seguito, eventualmente, il licenziamento. Va ancor peggio per il personale assunto a tempo determinato, per il quale non è prevista l’inidoneità e che quindi dovrà mettersi in malattia, con retribuzione intera per il primo mese e poi decurtata dal secondo al terzo mese al 50%; dal quarto al nono mese dovrà fare a meno della retribuzione, mantenendo soltanto il diritto al posto di lavoro.
Se ci spingiamo più giù nel girone infernale del precariato, vedremo che chi ha una supplenza breve avrà diritto alla retribuzione al 50% soltanto per il primo mese di malattia.
Queste “tutele decrescenti” mettono in contrapposizione il diritto a salvaguardare la propria salute con il diritto al reddito.
Il dottor Bruschi avrebbe fatto meglio a riflettere sull’articolo 32 della Costituzione, in cui si afferma che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…”.
Fa parte delle ingiustizie più odiose colpire i deboli. Funzionari meno saccenti e più sapienti si sarebbero almeno fatti carico di inserire una ulteriore annotazione, in un documento così inutilmente lungo, chiarendo che la malattia, in questo caso specifico, non sarebbe entrata a far parte del cosiddetto “periodo di comporto”, quello in cui il lavoratore ha diritto al mantenimento del posto; tale precisazione avrebbe doverosamente tutelato i più fragili, coloro che soffrono di patologie invalidanti e gravi, condannati ad essere considerati “scarti” licenziabili nel momento in cui la loro salute, negli anni, dovesse andar peggio.
Quindi, si faccia il piacere di non appellarsi alla “comunità educante”: ogni visione solidaristica è assente dall’ultima nota ministeriale, la quale, peraltro, ha il demerito grave di arrivare alla vigilia dell’apertura delle scuole. La vergogna di presentare un documento tanto importante ed atteso da molti lavoratori a tre giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico non richiede commento.
La nota 1585 sui lavoratori fragili andrà senz’altro ad aumentare il vortice caotico creato dalla prevedibile inadeguatezza delle GPS, dall’assenza, denunciata da più parti, di migliaia di aule scolastiche, dalla mancanza di più di due milioni di banchi e da circa 200.00 cattedre vacanti (a sentire le stime più caute).
Questi sono i risultati dell’incompetenza, dell’improvvisazione, della protervia, passioni tristi che non difettano a chi ha in mano le sorti della scuola italiana.
Giovanna Lo Presti – Cub Scuola
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