Attualità

Lavori socialmente utili per alunni violenti? A scuola non conta la punizione esemplare ma la maturazione della consapevolezza

Il ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara non ha avuto mezze parole: “Basta sospensioni per bulli e violenti in classe. Molto meglio, ha affermato, che per punizione puliscano le classi o ridipingano le aule”.

Meglio, cioè, che i ragazzi lavorino, invece di starsene a casa perché sospesi da scuola, “per i beni pubblici e la comunità”, facciano lavori socialmente utili.

Per ridefinire queste nuove indicazioni il ministro sta istituendo un “gruppo di lavoro per l’Autorevolezza e il Rispetto”.

Cioè “un gruppo di esperti, ha spiegato, che dovrà mettere a punto misure per valorizzare l’autorevolezza degli insegnanti, garantire il rispetto dei medesimi, dei compagni e dei beni pubblici da parte degli studenti”.

Temi importanti, delicati, come si può comprendere. Tenendo a mente anche alcuni recenti episodi che hanno infiammato giornali, social e tg nelle scorse settimane.

Il problema, come purtroppo succede da sempre, è che la scuola fa notizia quasi sempre solo attraverso informazioni negative. Mentre è assente per quelle positive.

Parafrasando un famoso detto di Lao Tse: “Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce.”

Perché una cosa è giusto ricordarla: che le scuole, attraverso i loro regolamenti, già da anni prevedono le misure alternative alla mera sospensione dalla vita di classe.

Perché la scuola ha un ruolo educativo, non giudiziario, dedicato quindi ad aiutare le famiglie con un continuo dialogo anche sui limiti comportamentali degli studenti.

A scuola, dunque, conta la maturazione personale della consapevolezza, non la punizione esemplare quasi come un segnare a dito una persona.

Lo stesso per le valutazioni sugli apprendimenti: un giudizio non deve mai essere letto come ultimativo sulla persona, ma sul percorso scolastico, il quale deve essere corretto.

Lo stesso compito che spetta ai genitori a casa, ma in un contesto diverso. Perché la responsabilità educativa è anzitutto e prioritariamente delle famiglie, e la scuola è di supporto, di accompagnamento, di rinforzo.

È un po’ facile cavarsela in modo drastico e negativo: “sei uno zuccone, non capisci niente” (sul piano degli apprendimenti), “sei una persona cattiva” (sul piano dei comportamenti).

No, il compito delle famiglie, e quindi anche della scuola, deve essere in positivo. Il che non significa che le punizioni non ci debbano essere, ma vanno inserite in un percorso di maturazione.

Del resto, come non ricordare che siamo stati tutti giovani, e qualche marachella l’abbiamo fatta? In passato, anche qualche sberla dai nostri padri poteva servire, ma ora, data la crisi del principio di autorità, sappiamo che la autorevolezza ha bisogno sì di limiti chiari, ma che il cammino per riconoscerli a volte può essere faticoso, pieno di buche, ma è quello che è in grado di assicurare quella auto-valutazione, che è sempre atto di coscienza, che vale sia per gli apprendimenti, come per i comportamenti.

E, alla lunga, funziona più l’infinita pazienza, una ferma pazienza, condita con l’arte del perdono (del donarsi-per), per riuscire a persuadere, non ad imporre, qualche verità etica. Sapendo bene che, in un mondo nel quale prevalgono le maschere, compresa l’idea che la furbizia a poco prezzo conti più di tutto, l’autorevolezza abbisogna anzitutto della coerenza di noi adulti tra il dire ed il fare, più che le regole rigide del giudizio assoluto sull’essere delle persone, a partire dagli errori, dagli sbagli.

Lo sfondo educativo, quindi, prima di altri livelli di giudizio. E l’autorevolezza la si conquista sul campo, giorno dopo giorno. A casa come a scuola come in qualsiasi altro contesto.

Gianni Zen

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