Un lavoro oggi non è più garanzia di fuoriuscita dalla povertà. O, meglio, di garanzia di una certa qualità della vita.
Questa è la considerazione emersa dal confronto con alcuni ragazzi della mia scuola, sentendo le diverse esperienze, confrontando i loro sogni nel cassetto e i destini che stanno segnando i loro compagni più grandi.
In diversi hanno messo l’accento su una notizia (sono i dati Excelsior Unioncamere) che li ha colpiti: molte realtà del mondo del lavoro, da un lato, non trovano figure professionali in linea con le loro esigenze, dall’altro certi lavori non trovano candidati, magari quelli precari, frammentati, con stipendi bassi.
Non solo. Mi è piaciuto che gli stessi ragazzi non sopportino più la vecchia retorica sui giovani sfaticati, bamboccioni, che non accettano di confrontarsi, anche di adeguarsi alle prove richieste dalla vita e dal mondo del lavoro.
A completare il quadro, gli ultimi dati sul numero crescente di giovani che trovano, come unica e ultima possibilità, la via dell’estero, dove la meritocrazia conta più che in Italia; e, per chiudere, la notizia sulla fila di ventenni che chiedono informazioni sul reddito di cittadinanza.
Complessità, dunque, su complessità. Che dire a questi giovani?
Giusto ripetere che, oggi più di ieri, il futuro non è scontato, garantito, predeterminato.
Il presente-futuro, cioè, va guadagnato, adattandosi alle nuove complessità, ma credendo, in primis, fortemente sulle proprie passioni, attitudini, percorsi formativi, sensibilità.
Le vere bussole del nostro tempo, al di là delle proposte politiche, al di là delle polemiche sul conflitto generazionale, al di là e prima di tutto e di tutti.
In poche parole, credere anzitutto in se stessi, nella propria capacità di relazione, di imparare da tutti, ma mettendoci sempre un pezzettino della propria originalità. La vera dignità della propria e nostra vita, compresa la vera dignità del lavoro.
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